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venerdì 6 ottobre 2017

"DEMOCRATIZZARE" LA CULTURA ?


DEMOCRATIZZARE LA CULTURA? 
riflessioni sparse e incoerenti sulla distribuzione e l'organizzazione dei fatti culturali.

Il concetto di "democratizzazione della cultura", che sembra essere di per sé una cosa giusta, scontata, al di sopra di ogni possibile obiezione, é in realtà spesso applicato in modi ideologici e strumentali.

Bisognerebbe chiedersi daccapo, oggi, cosa significhi esattamente.
Perché la "cultura" dovrebbe essere "democratica"?
Se non lo é, non é cultura?
I fenomeni del pensiero e dell'arte che non siano immediatamente accessibili a tutti, sono da considerarsi antidemocratici?

Qualcuno sostiene che mancano i "mediatori culturali" giusti per portare la "vera cultura" alle masse popolari. Per dar loro gli strumenti giusti per una piena comprensione del fatto artistico e culturale.
Non saprei. Mi pare che oggi ci siano molto più "mediatori culturali" che operatori/creatori culturali veri e propri.

È una vera e propria peste del voler a tutti i costi spiegare, facilitare, rendere semplice e comprensibile ciò che - secondo i mediatori culturali stessi- è complesso. A un importante festival musicale dell'anno scorso, in alcuni concerti sinfonici furono montati sul palco dei grandi schermi nei quali apparivano in diretta durante l'esecuzione le "spiegazioni" di ciò che stava succedendo. "Ora entrano i violini I, ora c'é il dialogo tra i legni e gli ottoni, ora i timpani danno il tempo" e così via. 
Penoso tentativo di descrivere banalmente, pedissequamente, la musica con le parole. Fortunatamente non é stato più replicato.

E poi conferenze, fervorini introduttivi ai concerti, e qualche volta anche "segue dibbbbbattito": tremendo. Tutto un contorno di parole, parole, parole che alla fin fine rafforzano l'idea che la musica sia una cosa difficile da capire, che bisogna studiare, essere preparati: sennò si fa la figura degli ignoranti, se ci si limita a essere affascinati da una melodia, o ci si accontenta di fantasticare semplicemente cullati dalla musica. 

Mi pare che l'eccessivo contorno dei "mediatori culturali" stia in realtà intellettualizzando la cultura, sovrapponendosi, sovrabbondante, al fatto stesso.
Se io vado a vedere Piero della Francesca mi aspetto di poter sopratutto ammirare il quadro nella tranquillità e nel silenzio; al massimo desidero ricevere qualche informazione molto succinta sull'opera. Poi sarò io, se ne sento il bisogno, a casa, a cercare ulteriori informazioni, ad approfondire, a comprare libri, a leggere e costruirmi un mio percorso personale.

Quindi é sufficiente moltiplicare ad infinitum l'offerta culturale, aumentare il pubblico, rivolgersi a tutti senza pretendere di veicolare "contenuti", educare, elevare, edificare le masse?
Sappiamo benissimo che oggi i grandi festival investono in pubblicità e promozione gran parte del loro budget, proprio a questo scopo: democratizzare la cultura rivolgendosi al pubblico più ampio e variegato possibile. 
E infatti non manca affatto il pubblico, anzi. Spesso mandano via la gente in coda fuori dai teatri perché non c'é più posto, nemmeno in piedi. 
Dunque dove sta il problema? Non certo nella domanda. Il pubblico c'è, e in abbondanza. 
Magari manca un po' la qualità? Non saprei. 
Io sono uno che si accontenta. Se capita, vado volenteri ad ascoltare degli sconosciuti che suonano in modo decoroso ma non certo al livello degli astri internazionali. E godo ugualmente ad ascoltare, anche se in certi momenti magari soffro un po' per alcuni aspetti della performance che trovo insoddifacenti. Perché quello che mi interessa é la musica, non gli interpreti. In genere anche a quei concerti - specialmente se gratuiti- é pienissimo di pubblico, e la gente super contenta. 
Dunque? Non è che ci facciamo dei problemi inesistenti?

Il discorso di come organizzare stagioni concertistiche in una grande città è assai complesso.
È verissimo che il "brand" del grande festival funziona già da solo come attrattore, al di là della qualità della programmazione. Ma in generale trovo che ci sia un buon equilibrio. Poi molto fanno anche le "locations": ad esempio, una celebre e pionieristica rassegna di musica antica di Milano, Musica e Poesia a San Maurizio, aveva il suo perché anche per il fatto di svolgersi a San Maurizio, luogo magico che conferisce immediato fascino a qualunque cosa. 
Conosco molto bene queste dinamiche del brand: qualche anno fa mi trovai in coda per entrare a un concerto di London Sinfonietta, intorno a me c'era gente di tutte le età e la maggioranza di costoro NON SAPEVA cosa stava andando ad ascoltare. Si fidavano del grande festival che organizza in 10 giorni o giù di lì parecchie decine di concerti di tutti i generi musicali. 

È un bene? È un male? Si saranno pentiti, una volta resisi conto di aver scelto un programma di musica contemporanea di autori inglesi? Oppure avranno scoperto che non era niente male? 

Chi lo sa? Sono semi buttati nel terreno, magari qualcosa cresce, magari no. 

In definitiva non ho le idee chiare: ma in generale, questo zelo dello Stato Culturale (che é anche il titolo di un bel libro del saggista francese Marc Fumaroli) nel voler a tutti i costi democratizzare, spiegare, educare alla cultura, mi insospettisce sempre un po'. 

Ci vedo un fondo ideologico, un'idea paternalistica del compito delle élites.

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