"Sto diventando un po' troppo critico per potermi illudere ulteriormente di avere qualche talento" - F. Nietzsche


"Musica est exercitium aritmaeticae occultum nescientis se numerari animi“

- G.W. Leibniz


"I pecoroni non vogliono diventare padroni del loro lavoro!" - C.T.


"Tutta la musica è contemporanea."

mercoledì 27 dicembre 2017

Quando uno non crede alle proprie orecchie e rimane letteralmente senza parole



Quando uno non crede alle proprie orecchie e rimane letteralmente senza parole, ovvero: 
nuovi orizzonti dell'interpretazione musicale.

Accendo la radio su Rai Classica, e capito nel mezzo di quello che sembra essere un pezzo di musica contemporanea (a me sconosciuto) per violino : armonici, glissati in su e in giù, strappate brutali, passaggi velocissimi, pizzicati "bartòk" a mitraglia, grumi di note irriconoscibili se non come "figura" o "evento stocastico", tremoli al ponticello, silenzi improvvisi e sintomatici...insomma tutto il consueto armamentario retorico della musica d'avanguardia.
Ma in questo caso c'è qualcos'altro che aleggia nell'aria: come una ironia, una volontà caricaturale, come se il compositore volesse prendere in giro lo stile delle avanguardie esagerandone parodisticamente il repertorio "effettistico".
Io sospetto che sia così anche perché tra un glissato e l'altro, tra un effetto e l'altro, spuntano dei frammenti quasi-tonali che mi ricordano qualcosa, che sembrano delle citazioni dal repertorio classico del violino, che io però non riconosco. Allora mi dico: beh, questo compositore sicuramente ha una poetica postmoderna, non cerca il rigore interno del linguaggio ma utilizza elementi appartenenti a epoche e linguaggi diversi per farne un montaggio a suo gusto. Un momento sembra Sciarrino, un attimo dopo sembra Stravinskij, e altro ancora. Chi sarà mai costui?
Mentre mi passano per la mente queste domande, mi accorgo che in realtà il brano non è per violino solo, bensì per violino e ensemble folcloristico, perché nel frattempo è iniziata una danza indiavolata a suon di tamburelli, archi battuti col legno, e così via: ma deve essere una danza (che intuisco di origine balcanica) veramente "etnica", perché il violino solista si produce in acrobazie inaudite, fra trilli e sovracuti e glissati e jetèes, ma con un suono degno del più rustico e folkeggiante violino rauco e scordato di tutti i balcani, insomma una vecchia cassetta di legno trovata in cantina, cui siano state montate delle corde precarie, spaiate, suonata da un violinista fuori di sè e totalmente in preda all'alcol!
Inoltre anche qui la musica sembra seguire una certa embrionale, quasi irriconoscibile tonalità, con un paio di accordi (credo, mi pare di capire, nella confusione generale) che si alternano, I-IV, tipico procedimento armonico del bordone folk. E anche qui mi pare di riconoscere qualche citazione del repertorio violinistico, ma non saprei dire quale...
Perciò penso, forse ho sbagliato: questa non è musica contemporanea di un ignoto compositore post-moderno, interamente scritta; questo è invece un ensemble folcloristico, certamente registrato sul campo, "live" da un etnomusicologo durante qualche festa di paese. Ho un trasalimento: che sia una delle leggendarie registrazioni di Kodàly o di Bartòk, quando giravano per l'Ungheria alla ricerca delle radici popolari della musica? No, impossibile: la presa sonora è troppo buona, troppo fedele. Ai tempi di Bartòk sarebbe stato impossibile registrare con questa qualità di suono.
Intanto la danza si è fermata improvvisamente e ricomincia il violino solo con una sua specie di cadenza, tipo i trilli degli augellini all'inizio de "La Primavera" di Vivaldi, mischiati ad altre cose più o meno virtuosistiche e chiaramente improvvisate, un po' nello stile jazz-rock del buon vecchio Jean-Luc Ponty.
Ho una illuminazione: questa non è musica contemporanea, e nemmeno folk! Questo è un gruppo jazz-ethno, è tutta roba improvvisata! Sarà una session registrata dal vivo a qualche jazz festival! Chissà chi è questo violinista?
Non faccio a tempo a mettere a fuoco nella memoria un nome, che inizia un'altra sezione musicale del pezzo, e questa volta sembra una rivisitazione contemporanea - un po' à-la-Schnittke- di una danza barocca, settecentesca. Come se un minuetto fosse filtrato da lenti espressioniste, e gli interpreti avessero assunto delle droghe allucinogene tipo l'LSD.
Insomma per farla breve, altri momenti musicali i più disparati si susseguono, e io non ci capisco più niente, rinuncio a capire cosa sia ciò che sto ascoltando, e ormai aspetto che finisca il pezzo -accolto da scroscianti applausi, un trionfo, a quanto capisco - solo per la curiosità di sapere chi sia questo autore a me completamente ignoto.
Ed ecco infine l'annuncio :
"Avete ascoltato, dall'auditorium di Lucerna, la registrazione live del CONCERTO IN RE MAGGIORE PER VIOLINO E ORCHESTRA DI W.A.MOZART. 
Violinista PATRICIA KOPATCHINSKAJA,
direttore TEODOR CURRENTZIS,
orchestra MUSICA AETERNA."
Di colpo mi sono sentito vecchio, decrepito, finito

venerdì 6 ottobre 2017

"DEMOCRATIZZARE" LA CULTURA ?


DEMOCRATIZZARE LA CULTURA? 
riflessioni sparse e incoerenti sulla distribuzione e l'organizzazione dei fatti culturali.

Il concetto di "democratizzazione della cultura", che sembra essere di per sé una cosa giusta, scontata, al di sopra di ogni possibile obiezione, é in realtà spesso applicato in modi ideologici e strumentali.

Bisognerebbe chiedersi daccapo, oggi, cosa significhi esattamente.
Perché la "cultura" dovrebbe essere "democratica"?
Se non lo é, non é cultura?
I fenomeni del pensiero e dell'arte che non siano immediatamente accessibili a tutti, sono da considerarsi antidemocratici?

Qualcuno sostiene che mancano i "mediatori culturali" giusti per portare la "vera cultura" alle masse popolari. Per dar loro gli strumenti giusti per una piena comprensione del fatto artistico e culturale.
Non saprei. Mi pare che oggi ci siano molto più "mediatori culturali" che operatori/creatori culturali veri e propri.

È una vera e propria peste del voler a tutti i costi spiegare, facilitare, rendere semplice e comprensibile ciò che - secondo i mediatori culturali stessi- è complesso. A un importante festival musicale dell'anno scorso, in alcuni concerti sinfonici furono montati sul palco dei grandi schermi nei quali apparivano in diretta durante l'esecuzione le "spiegazioni" di ciò che stava succedendo. "Ora entrano i violini I, ora c'é il dialogo tra i legni e gli ottoni, ora i timpani danno il tempo" e così via. 
Penoso tentativo di descrivere banalmente, pedissequamente, la musica con le parole. Fortunatamente non é stato più replicato.

E poi conferenze, fervorini introduttivi ai concerti, e qualche volta anche "segue dibbbbbattito": tremendo. Tutto un contorno di parole, parole, parole che alla fin fine rafforzano l'idea che la musica sia una cosa difficile da capire, che bisogna studiare, essere preparati: sennò si fa la figura degli ignoranti, se ci si limita a essere affascinati da una melodia, o ci si accontenta di fantasticare semplicemente cullati dalla musica. 

Mi pare che l'eccessivo contorno dei "mediatori culturali" stia in realtà intellettualizzando la cultura, sovrapponendosi, sovrabbondante, al fatto stesso.
Se io vado a vedere Piero della Francesca mi aspetto di poter sopratutto ammirare il quadro nella tranquillità e nel silenzio; al massimo desidero ricevere qualche informazione molto succinta sull'opera. Poi sarò io, se ne sento il bisogno, a casa, a cercare ulteriori informazioni, ad approfondire, a comprare libri, a leggere e costruirmi un mio percorso personale.

Quindi é sufficiente moltiplicare ad infinitum l'offerta culturale, aumentare il pubblico, rivolgersi a tutti senza pretendere di veicolare "contenuti", educare, elevare, edificare le masse?
Sappiamo benissimo che oggi i grandi festival investono in pubblicità e promozione gran parte del loro budget, proprio a questo scopo: democratizzare la cultura rivolgendosi al pubblico più ampio e variegato possibile. 
E infatti non manca affatto il pubblico, anzi. Spesso mandano via la gente in coda fuori dai teatri perché non c'é più posto, nemmeno in piedi. 
Dunque dove sta il problema? Non certo nella domanda. Il pubblico c'è, e in abbondanza. 
Magari manca un po' la qualità? Non saprei. 
Io sono uno che si accontenta. Se capita, vado volenteri ad ascoltare degli sconosciuti che suonano in modo decoroso ma non certo al livello degli astri internazionali. E godo ugualmente ad ascoltare, anche se in certi momenti magari soffro un po' per alcuni aspetti della performance che trovo insoddifacenti. Perché quello che mi interessa é la musica, non gli interpreti. In genere anche a quei concerti - specialmente se gratuiti- é pienissimo di pubblico, e la gente super contenta. 
Dunque? Non è che ci facciamo dei problemi inesistenti?

Il discorso di come organizzare stagioni concertistiche in una grande città è assai complesso.
È verissimo che il "brand" del grande festival funziona già da solo come attrattore, al di là della qualità della programmazione. Ma in generale trovo che ci sia un buon equilibrio. Poi molto fanno anche le "locations": ad esempio, una celebre e pionieristica rassegna di musica antica di Milano, Musica e Poesia a San Maurizio, aveva il suo perché anche per il fatto di svolgersi a San Maurizio, luogo magico che conferisce immediato fascino a qualunque cosa. 
Conosco molto bene queste dinamiche del brand: qualche anno fa mi trovai in coda per entrare a un concerto di London Sinfonietta, intorno a me c'era gente di tutte le età e la maggioranza di costoro NON SAPEVA cosa stava andando ad ascoltare. Si fidavano del grande festival che organizza in 10 giorni o giù di lì parecchie decine di concerti di tutti i generi musicali. 

È un bene? È un male? Si saranno pentiti, una volta resisi conto di aver scelto un programma di musica contemporanea di autori inglesi? Oppure avranno scoperto che non era niente male? 

Chi lo sa? Sono semi buttati nel terreno, magari qualcosa cresce, magari no. 

In definitiva non ho le idee chiare: ma in generale, questo zelo dello Stato Culturale (che é anche il titolo di un bel libro del saggista francese Marc Fumaroli) nel voler a tutti i costi democratizzare, spiegare, educare alla cultura, mi insospettisce sempre un po'. 

Ci vedo un fondo ideologico, un'idea paternalistica del compito delle élites.

mercoledì 13 settembre 2017

"Pina, io ti stimo moltissimo"



Il Domenicale del 3 Settembre 2017 del Sole24 ore si apre con una lettera inedita che Luciano Berio scrisse nel 1977 - 40 anni fa- al musicologo Massimo Mila.
Come sempre il pensiero di Berio spicca per lucidità e per intelligenza. Qualunque cosa si possa pensare della sua musica, mi pare innegabile che fosse un Maestro, che aveva capito molte cose prima e meglio di altri.
A che punto siamo 40 anni dopo?
Oggi il panorama musicale contemporaneo appare molto più differenziato, ma anche più confuso. Si sono persi punti di riferimento, criteri di giudizio, e se dovessi riassumere in una formula semplicistica il mio sentimento prevalente, direi che siamo immersi nel gioco di specchi fantasmagorico del postmodernismo, che è frutto di un Pensiero Debole, molto debole.
Non per questo però ho nostalgia per quegli anni. Non si torna indietro, mai.
Ma non posso far a meno di domandarmi, da musicista e da comune amante della musica, la domanda più banale e ingenua possibile, quella che probabilmente si pone l'ascoltatore non addetto ai lavori: perché quasi nessuna opera del secondo novecento ( quello delle "Avanguardie") mi commuove fino alle lacrime e mi prende allo stomaco come fanno invece Mahler, Strauss, Stravinskij, Bartók, Shostakovic ecc?
Lo so bene che i presupposti culturali, sociali, poetici, linguistici, estetici delle Avanguardie sono completamente diversi, e lo sono per una scelta ben cosciente.
Ma rimane il fatto che l'apprezzamento delle opere di Berio e di molti altri compositori suoi contemporanei rimane per me quasi sempre nei confini di un ascolto di tipo razionale e non viscerale, non istintivo: conosco i presupposti, le ragioni teoriche e pratiche -e financo politiche- per le quali la sua musica è fatta così e non in altro modo, in alcuni casi conosco la genesi tecnica delle singole opere, le problematiche linguistico/formali delle quali provano a essere una soluzione.
Ma l'oggetto sonoro in sé quasi sempre rimane in buona parte FUORI di me, non mi travolge, non penetra in profondità nella mia anima musicale, apparentemente non mi lascia godere, se non attraverso il veicolo razionale della conoscenza consapevole, di un godimento giudicante, discernente, vigile.
Lo so, lo so benissimo che si potrebbe rispondere: la temperie estetico/culturale del tardo Romanticismo di Mahler e di Strauss è radicata profondamente in noi, ne siamo figli e nipoti, usa un linguaggio che, per quanto allargato e lacerato in mille modi, è ancora quello che ci viene in eredità da secoli di storia della musica, è nei nostri cromosomi a tal punto che i suoi simboli non li percepiamo piu in quanto tali, cioè unità semantiche veicolo di significato, ma solo come gestalten autonome, che hanno perso per le nostre orecchie la natura di "veicolo" e ormai coincidono tout-court con ciò che significano: il processo di identificazione affettivo/emotiva è perciò istantaneo, senza mediazione, e SEMBRA "naturale". Per questo - lo dico semplificando in modo intollerabile- vanno dritte allo stomaco, e sembrano non aver più bisogno di passare per il vaglio decodificante del cervello: sono ormai riflessi condizionati, non mediati.
Al contrario, la musica "contemporanea" nasce da una rottura estetica deliberata, e generalmente richiede un ascolto "strutturale" consapevole, certo più aperto, ma anche più competente.
Credo che questo sia il prezzo che paghiamo, nella situazione storica attuale, perché la musica di oggi continui a evolvere (non necessariamente in senso "progressista": ma evolvere come succede a qualunque altra cosa umana, cioè cambiare, non stare mai ferma, come è giusto che sia).
Alla musica "contemporanea" sembra che siamo costretti - per ora- a dare la stessa risposta che il rag. Fantozzi Ugo dà alla moglie che gli chiede se la ama :
"Pina, io ti stimo moltissimo".

NON C'È NIENTE DA VEDERE



Se nella Pop Art (Brillo Boxes, Marilyn, Kennedy, Campbell Soup, CocaCola, banconote, graffiti ecc.) "l'oggetto banale, la copia di oggetti o di immagini di uso comune, creato intenzionalmente per diventare un'opera d'arte non è riconosciuto in quanto Opera d'Arte che dentro un contesto storico e sociale determinato, e solamente se è sottomesso a una interpretazione teorica e filosofica suscettibile di giustificare l'interesse che gli si porta (...); se senza giustificazione filosofica tale oggetto sarebbe irrimediabilmente condannato a essere gettato nella spazzatura" (cit. Marc Jimenez - "la querelle de l'art contemporain");
se nell'Arte Concettuale poi sparisce l'oggetto materiale stesso, e il senso dell'Opera migra dall'Oggetto al Soggetto fruitore, al quale è interamente devoluto il compito di decidere della natura artistica del concetto stesso, e di decrittarne a piacimento il "significato" - se ne ha uno;
ALLORA è lecito chiedersi quale senso abbia esporre questi oggetti nei musei e nelle gallerie d'arte, dato che, come gli stessi autori in fondo dicono, NON C'È NULLA DA VEDERE.
Nessuna perizia artigianale, nessuna "aura autoriale" perché spesso l'oggetto, quando ancora sussiste come nel caso delle copie di oggetti di uso comune, non è prodotto materialmente dall'artista ma da altri per lui - laboratori industriali, fabbriche di manifatture o altro-, nessuna volontà di esprimere valori tradizionali quali la "bellezza" estetica o altri valori intrinseci alla sua fattura materiale, che il pubblico possa apprezzare osservandolo.
A questo punto, mi domando se non sarebbe in fondo più coerente NON ESPORRE, non organizzare mostre nelle quali allineare oggetti o meta-oggetti che in quanto tali non hanno alcun valore. Sarebbe invece più coerente, più fedele al pensiero degli artisti limitarsi a fornire al pubblico un saggio in forma stampata o una conferenza con i quali comunicare i concetti-base di queste correnti artistiche, e suscitare su di essi delle discussioni pubbliche. 
Sappiamo tutti che dopo Duchamp in arte e dopo Cage in musica, si sono aperte le cataratte ed é venuto giù tutto. E' venuta l'epoca del "n'importe quoi".
Ma sarebbe superficiale limitarsi a una condanna sdegnata della scomparsa della "Bellezza", come
alcuni fanno. Perché quello che é accaduto da là in poi non é la Morte dell'Arte, ma la scomparsa di un certo modello di Arte che aveva retto per secoli. Se per Hegel il destino dell'arte é quello di trasformarsi in filosofia, che a suo parere é la forma di conoscenza più alta e più complessiva che sia data all'umanità, allora con la svolta del Concettuale siamo pienamente nella filosofia, e la "profezia " di Hegel sembra sul punto di realizzarsi.

Ma poi quando vedo la gente che fa lunghe code e paga biglietti per andare a vedere una mostra di "opere" di Andy Warhol, mi dico che forse sono tutti vittime di una colossale presa in giro. Ben che vada, di un enorme equivoco.
Non c'è proprio niente da vedere, lì.
Al massimo, si celebra inconsapevolmente il rito di massa della finanziarizzazione del mondo e della vita.

LA RAI E LE MUSICHE DEL XXI SECOLO



Pur con tuttle sue lacune, RAI Cultura manda in onda spesso cose interessanti sull'arte contemporanea: arti visive, architettura, danza, teatro, cinema : ma niente sulla musica. Mi sembra molto strano. Se ne saranno accorti i cervelloni di quel canale? Si saranno posti la domanda ? Per chi vede Rai cultura, la musica consiste di tre cose : l'opera lirica, la musica sinfonica classica, e per le musiche di oggi il rock, con le sue numerose ramificazioni e sottogeneri.
Ora io mi domando perché alla Rai, che dall'anno scorso con l'inserimento del canone nella bolletta dell'elettricità ha avuto un fortissimo incremento delle risorse a propria disposizione, non sia venuto ancora in mente a nessuno che sarebbe ora di produrre un nuovo programma-inchiesta sulla situazione delle musiche d'oggi: di tutte le musiche, inclusa la musica "colta"contemporanea. Naturalmente lo dovrebbe fare senza steccati estetici e senza pregiudizi intellettuali. E la cosa mi meraviglia ancor di più perché il "format" di successo di un tale programma-inchiesta la Rai lo possiede da decenni, e si chiama "C'è musica e musica". Lo aveva coordinato e presentato Luciano Berio, più di 40 anni fa ormai.
Cosa manca alla RAI per decidersi a colmare questa lacuna, dopo tanti anni da quel programma così importante? Le idee? La volontà "politica"? Un compositore o un musicologo intelligente che conosca il medium e che che come Berio sia capace di coordinare il tutto in modo semplice e senza intellettualismi?
Insomma, la RAI é o non é servizio pubblico? 
Io capisco che questo mio post é una vox clamans in deserto, e che finché non si rovescerà il paradigma del "mercato" come bussola di ogni decisione culturale saremo destinati a una corsa verso l'abisso.
Ma continuo a ritenere - forse ingenuamente, può darsi- che per fare un programma-inchiesta di quaiità non servono investimenti industriali, ma FANTASIA, creatività e capacità di usare il linguaggio giusto, pur con mezzi scarsi. il buon vecchio adagio: far di necessità virtù.
Quanto al pubblico: pensare al telespettatore medio come un minus habens privo di curiosità e refrattario agli stimoli culturali nuovi é proprio quell'atteggiamento che produce l'abbassamento progressivo del livello qualitativo della programmazione.
E' tutto da dimostrare - a mio modesto avviso da non addetto ai lavori - che un programma ben fatto, creativo, semplice, che proponga in modo vivace (come lo faceva Berio) i protagonisti delle musiche di oggi, collegandoli in un affresco ben congegnato, mettendone in luce assonanze e dissonanze, analogie e influenze con altre discipline artistiche eccetera, interessi solo "una fetta esigua tra noi che paghiamo il canone". Ma quand'anche così fosse, la Rai deve decidere cosa é: se é una tv commerciale oppure un servizio pubblico con la "mission" di offrire il ventaglio più ampio possibile di prodotti culturali, anche se non per il grandissimo pubblico. Poi ci vorrebbe anche una riflessione su cosa sia questo "pubblico", nell'epoca in cui abbiamo a disposizione centinaia di canali tematici, tutti con shares esigui.
Amici, é necessario che chi ha in mano qualche possibilità di invertire la rotta si faccia coraggio e inizi a martellare, nei luoghi dove si prendono le decisioni.
Oppure nessuno dei nostri musicisti e musicologi - che con la Rai collaborano e che certamente avrebbero almeno la possibilità di lanciare l'idea - ha voglia di impegnarsi in questa sfida? Perché non si fa ?
Anche perché, quando ad es. capita che vada in onda un concerto sinfonico (di Rai torino o di S. Cecilia) nel quale disgraziatamente c'é anche un pezzo contemporaneo, e questo non viene presentato, non si dice nulla nè dell'autore nè dell'opera, il risultato é imbarazzante, addiittura controproducente.



ARTE COPROFILA - POUR EN FINIR AVEC L'HUMANISME



ARTE COPROFILA- POUR EN FINIR AVEC L'HUMANISME

Cari amici, se vi interessano le cose dell'arte contemporanea, e se i barattoli di "Merda d'artista" del nostro Piero Manzoni degli anni '60 vi hanno sollevato qualche legittimo interrogativo o curiosità, allora questa cosa di Wim Delvoye vi manderà in estasi.
Si chiama CLOACA© ed è una raffinatissima macchina per fare....la cacca.
Cioè da una parte le si dà da mangiare a strafottere, senza limiti; lei da brava rumina, digerisce, decompone, ha nella "pancia" tutti i suoi begli enzimi e acidi e batteri come nel nostro apparato digerente; e dall'altra parte, alla fine del processo, Cloaca© produce degli stronzi che - a detta di chi l'ha vista in azione- sono perfettamente realistici, e autentici anche dal punto di vista olfattivo.
Ora io vi devo confessare che questa macchina mi affascina in massimo grado, e per più ragioni.
Innanzitutto per la fantastica perizia tecnologica di chi ha saputo progettare una macchina che riproduce perfettamente i complessi processi chimici digestivo/intestinali della fisiologia umana. È una bella sfida progettistica, vinta alla grande.
Poi, l'idea mi ipnotizza, mi cattura per l'ovvio contrasto radicale tra la complessità tecnologica e la sua totale inutilità, gratuità: è vero che le "macchine inutili" di Tinguely avevano già abbondantemente percorso questa tematica, ma qui c'è qualcosa in più, e più disturbante: se cercate on line altri video, ne troverete uno dove uno stuolo di veri chef prepara "da mangiare" per Cloaca© delle pietanze raffinate, un intero menù pantagruelico, infinito, poi lo scarica alla rinfusa con le mani e con i mestoli su un nastro trasportatore che convoglia tutto "in bocca" a una versione enorme, gigantesca di Cloaca©; la quale poi da brava, dopo un po' (il tempo che ci vuole ) fa comparire sul nastro trasportatore dall'altra parte uno stronzo bellissimo, lungo metri e metri, per la gioja degli astanti ( forse un po' meno per le loro narici).
Insomma una specie di banchetto di Trimalcione come nel Satyricon di Fellini, più, allusivamente, la pulsione di morte del famoso film di Ferreri "La Grande Bouffe".
Solo che qui la protagonista è una povera macchina inanimata, il che rovescia in farsa qualsiasi interpretazione psicologista sulla pulsione autodistruttiva e sul celeberrimo triangolo libidico sesso-cibo-morte, eccetera. Tutta la cosa diventa una goffa, ridicola caricatura. Ma anche terribilmente tragica e realistica. Io ne sono affascinato, ipnotizzato, sconvolto, rimango senza parole come davanti a una epifania numinosa.
E credo che sarebbe ancora più tragico e disturbante se la macchina fosse un automa dalle fattezze umane perfettamente imitate. Dovrò trovare il modo di suggerire questa idea all'artista, se non ci ha già pensato lui. 
In terzo luogo, tutta questa faccenda apre abissi insondabili quanto affascinanti sullo statuto dell'arte contemporanea, sul suo ruolo nella società (se ne ha uno) e sul Sistema dell'arte: artisti, gallerie, musei, mercato dell'arte, influenza dei media, ricezione del pubblico, e così via all'infinito.
C'è qualcosa di veramente geniale in CLOACA©, e al tempo stesso di terribilmente "Unheimlich".
E' l'anello che mancava per chiudere il cerchio. È il trionfo finale è definitivo della tautologia ontologica nichilista di certa arte contemporanea. Una circolarità perfetta, arte-denaro-merda- arte e così via ad libitum ad infinitum
Un mistero insondabile che mi porterò dietro finché campo.

P.S. Leggo che l'artista colombiano Fernando Pertuz "in una galleria d'arte defecò di fronte al pubblico, poi con grande solennità passò a ingerire le proprie feci". Sembra che apparentemente qui si tratti di una performance analoga ( ma rovesciata: prima ci sono le feci, poi queste diventano "cibo"), invece no. Qui non c'è sublimazione artistica, c'è solo banalità,volgarità, provocazione gratuita secondo me

domenica 20 agosto 2017

MUSICA ANTICA E SOCIETÀ CONTEMPORANEA


La musica del Settecento sembra avere oggi, nel XXI secolo, più o meno la stessa popolarità (a volte sconfinante nel fanatismo di massa) della musica pop.
Un vastissimo pubblico di tutte le età e livelli di scolarità e cultura accorre ai concerti, compra dischi e alimenta un mercato globale che ormai mi pare stia scavando il fondo del barile di tutto l'immenso patrimonio musicale che era rimasto per secoli sepolto nelle biblioteche.
Come era prevedibile e fisiologico, oggi dopo aver pubblicato decine o centinaia di versioni dei più alti capolavori del repertorio barocco
- uso questa definizione generica per comodità - si riscoprono autori e opere minori che poco o nulla aggiungono alla nostra conoscenza, e si è passati ora anche a lavorare di fantasia, re-inventando con una certa spregiudicatezza opere incomplete o dubbie, proponendo versioni arbitrarie o improbabili ibridazioni etnico/linguistiche funzionali al gusto postmoderno contemporaneo (mi riferisco qui alla recente "querelle" sulle interpretazioni del celebre Jordi Savall, a parere di qualcuno piuttosto spregiudicate; ma non è che il caso più noto). 

giovedì 26 gennaio 2017

LA FAVOLETTA IMMAGINARIA DEL PASSANTE E DELLA GRANDE MELA



LA FAVOLETTA IMMAGINARIA DEL PASSANTE E DELLA GRANDE MELA 
(alla maniera di Italo Calvino)

Quella cosa enorme è lì ormai da mesi, ma solo un certo giorno il Passante appena sceso dal treno "si accorge" della sua presenza, per così dire, e si sofferma a guardare, a cercare di capire. 
Molti pensieri confusi gli attraversano la mente, ma una domanda su tutti: PERCHÈ??
E insieme, un sentimento misto ma spiacevole, come di sconsolata allegria, come una risata amara. 
Non che lui trovi l'oggetto "brutto" in sé: si sa, i gusti sono soggettivi eccetera.
Ha visto di ben peggio, anzi di tremendo, insopportabile, nell' arredo urbano della sua città.
È che il Passante prova sempre una certa repressa indignazione di fronte alle manifestazioni dell'altrui invadenza e megalomania. Quando qualcuno gli sbatte in faccia una cosa come per dirgli "guarda, QUESTO l'ho fatto IO !" al nostro Passante viene da ridere dentro di sè, ma amaro, triste, pieno di compatimento per la piccolezza degli uomini che si credono - e vogliono essere creduti- grandi. 
Il Passante appena sceso dal treno non è un critico d'arte nè un urbanista, ma solo un comune cittadino, uno dei milioni che passano di qui indaffarati, ognuno con le sue pene e faccende, ma che anche volendo non possono non vedere "l'Opera d'Arte": che lì davanti alla Stazione Centrale, enorme e tronituante, quasi in mezzo alla vasta piazza, si impone con la sua massa pesante e ottusa. 
 E allora per capire di più, il Passante si informa sull'Autore. 

martedì 24 gennaio 2017

FENOMENOLOGIA DEL GENIO MUSICALE: MYUNG WHUN CHUNG



FENOMENOLOGIA DEL GENIO MUSICALE: MYUNG WHUN CHUNG
(Don Carlo alla Scala) 

 Il Maestro Chung è magro come un chiodo. Come uno che si sottoponga a una dura disciplina. Forse fa meditazione o yoga. Ha un corpo secco e scattante ma non sembra muscoloso: anzi a dire la verità le spalle sono un po' cadenti, e la testa forse è un po' troppo grossa rispetto al corpo.
Quando entra nel "golfo mistico" (ahahaha!)  e si avvia al podio passando attraverso le file dei violinisti, ha un'aria che sembra vagamente annoiata, ma non manca mai di dare delle piccole carezze o buffetti amichevoli, anche affettuosi, sulle spalle dei violinisti vicino ai quali passa: a qualcuno lancia, passando, una rapida battuta, chissà cosa gli dice. Arrivato al podio, vi sale dimesso, quasi con l'espressione di uno che si appresti a svolgere un compito noioso, forse persino spiacevole. Accoglie l'applauso del pubblico senza sorridere, come una faccenda che vada espletata nel modo più rapido, informale e indolore possibile: si volge verso il pubblico solo per qualche secondo non di più, non concede ai festeggiamenti che gli vengono tributati di eccedere la brevissima durata che evidentemente lui considera tollerabile.
È vestito di nero, certo, ma non indossa il frack d'ordinanza, e nemmeno quelle giacche esotiche di varia foggia che i suoi colleghi usano, talvolta con esiti estetici imbarazzanti o goffi, nel tentativo di sostituire l'abito da cerimonia tradizionale, ormai antistorico e anche scomodo. Non è per il maestro Chung il pavoneggiarsi sventolando le code del frack come appunto il volatile campione di narcisismo. Evidentemente per lui la direzione è un fatto spirituale, un rito celebrato insieme ai suoi orchestrali: amo pensare che se potesse lo farebbe più volentieri senza che il pubblico lo potesse vedere in azione. 
Veste di nero, certo, ma dimesso, casual: pantaloni senza nastrino laterale,  e semplice T-Shirt sopra la quale una camicia (o golfino leggero) aperto. Un abbigliamento che potrebbe indossare anche per una passeggiata primaverile all'aperto. 
Come detto, non lascia che pochi secondi agli applausi. Anzi qualche volta da' l'attacco SUGLI APPLAUSI, costringendo così il pubblico a smettere di colpo, sulle prime note della musica. Una urgenza interiore lo induce a venire subito al dunque, senza perdersi in convenevoli. 
E non appena la bacchetta si abbassa, siamo precipitati di colpo in un'altra dimensione spirituale, in un tempo metafisico.
E inizia un miracolo continuo.

lunedì 2 gennaio 2017

AFFETTUOSO MESSAGGIO DI PACE AGLI ODIATORI DELLA MUSICA CONTEMPORANEA "COLTA"




AFFETTUOSO MESSAGGIO DI PACE AGLI ODIATORI DELLA MUSICA CONTEMPORANEA "COLTA"
(o "accademica" o "d'arte" o "forte" o quello che volete voi, insomma ci siamo capiti)
E AI NOSTALGICI DELLA TONALITÀ

Io ho aperto questo blog solo da qualche anno, ma in questo pur relativamente breve lasso di tempo ho visto crescere a dismisura attacchi sempre più polemici e talvolta violenti contro la "musica contemporanea" (vedi sopra la definizione a piacere). 
Sarei tentato a questo punto di appellarmi alla PresidentA Boldrini o all' ONU per chiedere l'intervento dei caschi blu in difesa di una minoranza etnica seriamente minacciata nella sua esistenza. 
Non sto a riassumere le accuse contro questa piccola e tutto sommato trascurabile nicchia fra le infinite nicchie di cui si compone il grande mercato musicale: non c'é nemmeno uno tra i miei "contatti" qui che non si sia imbattuto certamente svariate volte in post sull'argomento, seguiti da alluvioni di commenti e di polemiche, quindi tralascio la disamina e riassumo in estrema sintesi.
Le accuse provengono non solo da stimabili colleghi musicisti che sanno ciò che dicono e lo argomentano compiutamente e in modo articolato e motivato, ma ormai anche da guardiamacchine abusivi, venditori di almanacchi, vice-rappresentanti di una sottomarca della BIC (chi coglie la citazione vince un CD di Feldman), marittimi di lungo corso (quindi lontani da casa per lunghi periodi dell'anno) testimoni di Geova, abbonati a L'Unitá: categoria, quest'ultima, che credevo estinta da tempo, ma tant'è.
La parola d'ordine é : dàlli all'untore della musica contemporanea, al rogo l'eretico senza Dio!

martedì 27 dicembre 2016

Ha ragione chi teorizza la scomparsa dell'arte?

 
È curioso osservare come nel campo delle arti visuali il dibattito su "cosa sia Arte", ovvero quale caratteristica qualifichi come "artistico" un manufatto o una performance o anche solo un concetto che permetta di qualificarlo come "Opera", sia ancora acceso e vivace, e si pubblichino tuttora libri sull'argomento, come quelli raffigurati nella foto; mentre invece nel campo della musica, fatta salva la controversia che ciclicamente riemerge intorno alla figura centrale di John Cage, pare che si dia per scontato che è musica (intesa come manifestazione artistica) qualsiasi produzione sonora, più o meno organizzata o improvvisata, artificiale o naturale, a patto che esista una comunità - o perfino soltanto un singolo individuo- disposta a considerarla tale.
Da un lato quindi sembrerebbe che nel campo musicale si sia "più avanti" rispetto alle arti visuali/visive, avendo ormai archiviato il problema e assimilato questa sorta di universalismo ecumenico tipico della fine del XX secolo e del postmoderno globalizzato, che mette tutto sullo stesso piano; dall'altro lato però a me pare che questa apertura totale sia gravemente lacunosa perchè si basa su una tautologia circolare - che vale anche per le arti visive/visuali - secondo la quale il criterio discriminante non risiede nelle qualità intrinseche dell'opera, nella sua fattura concreta, ma nella "intenzionalità" del soggetto creatore o dei fruitori, i quali vi riconoscono una artisticità, e ciò basta a sancirne la qualifica sociale di "Opera d'arte".
Non sarò certo io a volermi trasformare in un novello Hanslick e dettare il canone estetico del XXI secolo. Nessuno ha il diritto di contestare l'altrui giudizio - sia esso fondato su strumenti critici adeguati oppure su sensazioni superficiali.
Ma sono disorientato e mi domando come mai il dibattito pubblico sull'estetica musicale contemporanea sia così povero di stimoli, o così a me pare, e prenda per buono lo stato delle cose senza apparentemente più porsi delle domande di fondo.
Forse ha ragione chi teorizza la ormai totale dissoluzione dell'arte - intesa come concetto che ci arriva dal Romanticismo, e che identificava quelle espressioni appartenenti alla sfera della pura estetica- per completa assimilazione/identificazione col Mercato e le sue leggi, che ha convertito qualsiasi esperienza estetica in Merce ?

mercoledì 21 dicembre 2016

"NEL SECOLO SCORSO SCRIVEVO MUSICA CON LE NOTE" (oggi con i suoni)

"NEL SECOLO SCORSO SCRIVEVO MUSICA CON LE NOTE"
(sottinteso: oggi con i suoni).
Una riflessione sulla "Musica Concreta Strumentale" europea.

Questa frase, pronunciata scherzosamente da un amico compositore, vale una rivoluzione copernicana, e sintetizza perfettamente lo stato attuale della musica "d'avanguardia " europea. È un cambio totale di prospettiva, che apre orizzonti infiniti e imprevedibili.
In verità questa "rivoluzione" ha le sue radici saldamente affondate nel primo Novecento (ma forse anche ben prima: penso ad esempio alle incudini del Rheingold), quando iniziò l'erosione delle barriere tra "suono" e "rumore": molti furono gli autori che contribuirono in modi più o meno radicali a questo lento processo, ma se dovessi indicare il primo, il più coraggioso, direi forse Varèse, con l'irruzione nel circolo chiuso della musica di suoni presi dalla realtà esterna, quali sirene, metalli, suoni industriali e cosi via.
Un altra invenzione del Novecento che alimentò questo processo fu lo sviluppo della tecnologia audio, che diede luogo alla nascita della Musica Elettronica. Per la prima volta i compositori ebbero accesso al mondo infinito dei suoni al di fuori del piccolo recinto delle note. Suoni infiniti e inauditi, che non esistono in natura e che possono essere creati ex novo,  plasmati e organizzati a piacere.
Poi nacque, nella seconda metà del Novecento, la Terza Via, la cosiddetta "Musica Concreta Strumentale", che esplora le possibilità sonore alternative degli strumenti tradizionali; non in cerca di "effetti" stranianti e/o evocativi come potrebbero essere i corni "chiusi" di Mahler o i tremoli al ponticello degli espressionisti,  ma per le loro qualità puramente foniche: suoni complessi, instabili, ai confini col rumore bianco, oppure aggregati inarmonici variamente "colorati" o "sporchi".

giovedì 8 dicembre 2016

CORSI E RICORSI STORICI


Grazie a un recente post di un amico, ho fortunosamente recuperato dai più dimenticati recessi della mia disordinata biblioteca questo libro, relitto di un epoca tramontata e rimossa, pubblicato nel 1971 da un Perniola trentenne ma già pienamente integrato nel mondo degli studiosi di alto livello, e infatti pubblicato nella collana di estetica curata da due "mammasantissima" dell'epoca, Luciano Anceschi e Luigi Pareyson.
Leggendo il risvolto di copertina, trasecolo:
"L'arte non è una manifestazione piena e totale della creatività umana, ma una sua alienazione....l'arte, intesa come significato senza realtà, e l'economia, intesa come realtà senza significato, costituiscono la struttura del mondo borghese: in esso alla spiritualità impotente della prima corrisponde la materialità violenta della seconda. Entrambe cercano di chiudere l'uomo in un contesto totalitario fondato sulla separazione."
Parole che evocano il sapore inconfondibile di un tempo nel quale, sotto il vessillo allora egemonico della visione marxista del mondo, molti provarono a elaborare una critica radicale dello stato delle cose, con il sogno di rovesciare un intero modello sociale e culturale e rifare tutto da capo, in un modo più giusto e più umano.

martedì 27 settembre 2016

DIONISO AL CONCERTO DI MUSICA ELETTRONICA (Cronaca semiseria)


"Remix concettuale": questa la definizione di ciò che ci aspetta, a quanto dice uno degli addetti ai lavori.

I PARTE
Sul palcoscenico non c'è alcuna presenza umana: solo dei totem primitivi, dei menhir tecnologici.
Presenze impersonali, inquietanti.
Sono creature di un altro mondo.
Le loro bocche sdentate sghignazzanti su colli troppo lunghi, i loro occhi senza orbite sono rivolti verso di noi, impersonali, ieratici. Ma sappiamo che è da quelle bocche e da quegli occhi che uscirà lo tsunami inaudito di suono, l'onda che ci sommergerà.
E sarà subito Trance oceanica ansiogena. Siamo venuti qui per questo.
Tutti noi seduti al buio, siamo sommersi da suoni sibili schianti battiti di ali uragani e maree provenienti da ogni parte intorno a noi a volume devastante.
Mi dico: mette un po' a disagio in verità vedere questo pubblico che assiste a una sorta di Rito di devozione collettiva al Dio onnipotente della Macchina. C'è una fortissima componente Dionisiaca senza dubbio, ma la violenza primigenia è qui sterilizzata: si assiste, ordinatamente seduti in silenzio ognuno al proprio posto e al buio, a questa sublimazione collettiva della violenza.
L'Uomo della Macchina è il sacerdote che officia il Rito dall'altare allestito in mezzo a noi, in platea, da dietro la sua consolle luminosa come il quadro comandi di uno shuttle ( il paragone è scontato, ma pertinente: il Cosmo, lo Spazio è l'immagine che viene più facile alla mente quando si ascolta musica elettronica: forse a causa del riverbero lunghissimo, dei profondissimi orizzonti siderali che il suo utilizzo ispira).
L'Uomo della Macchina dunque è colui che solo è autorizzato a evocare la potenza del Dio, a provocarne l'Epifania immateriale, sub substantia sonoris.
Viene il sospetto che questo desiderio di trance pseudo-mistica non a caso interessi così tanto il pubblico, in maggioranza di giovani, che c'è qui: come se fosse un modo per partecipare virtualmente a un sacrificio pagano e violento, ma metaforizzato in forma sonora e perció priva del pericolo di far scoppiare un'orgia o una violenza di massa, come invece sarebbe piu logico aspettarsi da questi giovani precari, che hanno ancora tutta la vita da vivere ma con davanti un futuro incerto e oscuro.
Dovrebbero scendere in piazza e spaccare tutto, fare la rivoluzione, penso dentro di me.
Invece se ne stanno lì buoni buoni seduti nel loro posto numerato, e hanno applaudito con cortesia e moderazione la lunga presentazione pre-concerto. Hanno applaudito disciplinatamente le Autorità civili e religiose e ora stanno zitti e buoni al buio, invece di uscir fuori e spaccare tutto.
Ma forse quello cui partecipiamo qui è ancora e sempre quello stesso rito apotropaico che in ogni tempo gli uomini celebrano, evocando la violenza in forma simbolica per scongiurarne l'esplosione concreta e reale.
Da questo punto di vista, la qualità intrinseca della musica sembra a me essere davvero poco importante. E forse anche per questi ventenni. Non siamo qui per la musica, ma per qualche altra ragione oscura che non riesco ad afferrare.

giovedì 4 agosto 2016

CONNECT ?



CONNECT
Leggo sulla preziosa rivista cartacea edita da Ensemble Modern, Frankfurt, il lancio di un progetto di cooperazione internazionale tra lo stesso EM, London Sinfonietta, Asko, Remix, chiamato CONNNECT che sarà eseguito nei quattro paesi dove risiedono i predetti ensembles, e consiste nel commissionare ad alcuni (giovani) compositori dei lavori che includano un intervento attivo del pubblico nell'esecuzione.
Va da sè che questa partecipazione, per ovvi motivi, non puó essere molto raffinata. Dalle interviste ai compositori ricavo che il pubblico potrà suonare varie piccole percussioni distribuite all'ingresso del concerto, oppure mormorare, recitare in vario modo brani di poesie tratte dal programma di sala, o produrre suoni - vocali o di altro genere: sempre seguendo una serie di istruzioni precedentemente impartite, e integrando così, come previsto in partitura, la parte musicale eseguita dagli interpreti professionisti. Potrà eventualmente anche spostarsi insieme agli esecutori, nel caso che l'opera preveda da parte dei musicisti professionisti una esecuzione "itinerante" o spazializzata. E così via. 
Per riflettere su questo progetto è necessario tenere a mente il contesto più ampio: la musica contemporanea "accademica", quella che discende in qualche modo dalla "Neue Musik" del '900, perde appeal in tutta Europa, fatica a finanziarsi e rischia di ghettizzarsi sempre di più, con un suo pubblico fedele certo, che peró invecchia, con i suoi riti più o meno consolidati. Non era questo il progetto originale della Neue Musik, la quale, al contrario, nei pensiero utopistico dei suoi esponenti più d'avanguardia, credeva di sostituirsi del tutto, nel mondo del futuro, alla musica "classica"! 
Il pionierismo dell'avanguardia è ormai consegnato alla Storia. Le formazioni specializzate in questo repertorio, oggi pienamente istituzionalizzate da parecchi decenni, finanziate in larga parte da denaro pubblico, sanno che in futuro queste risorse diminuiranno seguendo inevitabilmente il trend politico/culturale del nostro tempo. Quindi cercano giustamente di rimodulare la loro offerta e di rinnovare allo stesso tempo il pubblico e la proposta culturale in modo più adeguato alla nuova situazione sociale, alle tendenze attuali. 
E indubitabilmente il concetto di CONNESSIONE, di PARTECIPAZIONE, in vari modi coniugato, nel mondo reale come in quello virtuale dei media e dei social media, è il trend principale del nostro tempo. 
Ecco quindi che l'idea di coinvolgere il pubblico direttamente nell'esecuzione, annullando in qualche modo la distanza tra i musicisti sul palco e la gente seduta in platea, sembra essere una risposta, sia pur parziale, per rimettere in moto le cose e risvegliare l'interesse della gente e dei media.
Benissimo: del resto l'idea non è affatto originale, se si pensa alle performances di John Cage e altri in campo musicale (roba degli anni 50/60 del Novecento!) e del nostro Ronconi nel teatro: penso al suo Orlando Furioso degli anni '70, allestito in vari spazi di una ex fabbrica, con scene recitate in contemporanea in varie sale che il pubblico poteva visitare nell'ordine preferito.
Questi due precedenti storici bastino per esemplificare una grande quantità di proposte simili che si sono viste nella seconda metà del Novecento.
 
È poi recentissimo il "Concerto per orchestra e pubblico" di Nicola Campogrande, (vedi foto-articolo di Repubblica)  che ha avuto delle esecuzioni pare molto gradite dal pubblico partecipante, e ha attirato l'attenzione dei media non specializzati. Io non l' ho ascoltato e non posso giudicare.
Comunque, è ovvio che non si inventa mai nulla ex-novo, e che sembra saggio riprendere una tendenza del passato, se si è in grado di svilupparla meglio, di adeguarla al presente. 
Dipenderà quindi dalla qualità artistica- non solo dal suo potenziale di socializzazione - di questo progetto CONNECT se avrà fortuna.
Sinceramente, ciò che desumo dal lungo articolo sulla rivista di EM nelle dichiarazioni d'intento dei suoi serissimi promotori, non sembra andare molto più in là di un retorico, politicamente corretto appello alla "partecipazione attiva" del pubblico nella realizzazione di particolari "atmosfere" musicali, magari anche affascinanti singolarmente dal punto di vista sonoro, ma credo tutto sommato dal fiato corto, e mi domando: è veramente così che pensiamo il futuro della nostra musica? Siamo di fronte a un espediente massmediatico oppure a una proposta articolata, pensata a fondo, di lungo respiro? La nostra é l'Era della Connessione, della Condivisione: ma anche qualche volta della demagogia. Non vorrei che alla fine ci ritrovassimo in una no man's land, a metà strada tra i vecchi happenings degli anni '60 e il pubblico festante che applaude a tempo la Radetsky March ogni 1 gennaio a Vienna :-))

domenica 5 giugno 2016

LA STORIA NEGATA - Musica e musicisti nell'era fascista


"L'epurazione di un parte del nostro patrimonio nazionale è stata, in musica, più efferata che nelle altre arti. (...) è stato facile, per i partiti trionfanti dopo la Guerra Civile in Italia, eradere semplicemente ció che avrebbe meritato una complessa discussione. (...) la revisione postbellica ha causato una soluzione di continuità capace di mettere in crisi la stessa identità nazionale della musica del Novecento italiano. Se l'Italia è ancora "il paese del Melodramma", per dirla con Bruno Barilli, la colpa è sopratutto degli operatori culturali (....) che hanno agito in modo distruttivo. "

Questa la tesi di fondo del bel libro di Alessandro Zignani (Zecchini Editore) che, da un punto di vista genericamente definibile "conservatore", restituisce un panorama complessivo, se non esauriente, e illuminante sulla situazione dei musicisti italiani nella prima parte del Novecento e in particolare durante il Ventennio. Denso di informazioni, e ricco di ironia e sarcasmo che permette di guardare anche con un certo distacco alle baruffe e alle lotte per il potere tra compositori che si contendevano i favori del Duce, è un libro che consiglio perché mi pare un contributo indispensabile per iniziare in modo sistematico a colmare una lacuna storica e musicologica sulla quale per anni abbiamo rifiutato di volgere l'attenzione.
Casella, Respighi, Giordano, Pizzetti, Malipiero, Lualdi, Sinigaglia, Ghedini, Bossi, Pick-Mangiagalli, Porrino, Salviucci, Pilati, Gnecchi, Mulè, De Sabata, Marinuzzi e molti altri sono stati i protagonisti della musica italiana nella prima parte del secolo: più cosmopoliti e meno provinciali di quanto ci siamo abituati a ritenere, meritano ben maggiore attenzione di quella finora loro riservata.
Non per rinverdire un becero neo-nazionalismo musicale, ma perché è più saggio conoscere i nostri padri, e comprendere da dove siamo venuti, invece che tentare di seppellirli per sempre, come vergognandosene, dopo averli condannati con un processo sommario.
I tempi sono maturi per un ripensamento, sia perché sempre nella storia ci sono i "corsi e ricorsi", ma ancor più perché la "spinta propulsiva" delle ex-avanguardie mi pare definitivamente esaurita, ed è ormai oggi nelle cose una "revisione della revisione".
Le generazioni nate nei decenni immediatamente successivi alla II guerra mondiale sono cresciute in un clima culturale di "progressismo ideologico" che ha avuto tanti meriti, ha favorito l'emergere di tante nuove proposte artistiche, ma doveva sgombrare dallla visuale coloro che considerava relitti polverosi ed equivoci di un passato del quale vergognarsi. Oggi il clima è cambiato e possiamo tornare a guardare con più serenità a quelli che, volenti o nolenti, sono stati i nostri progenitori.
Un altro merito del libro è demistificare la divisione fascisti/antifascisti tra i musicisti del Ventennio: almeno fino al 1938, anno dell'introduzione delle leggi razziali, furono tutti più o meno legati al Fascismo, chi per convinzione, chi per carrierismo, chi per poter continuare a far musica, chi per ingenuità. Il Regime tollerava, premiava, distribuiva cariche, prebende, posti d'insegnamento, commissioni per opere nuove. Più o meno tutti se ne avvalsero: molti anche ben oltre il 1938, ricoprendo cariche di prestigio e riconoscimenti pubblici. E non faccio nomi. Alcuni superarono indenni la fine del Regime e conservarono le loro posizioni nel Dopoguerra, fino all'altroieri.... 

mercoledì 25 maggio 2016

De-stalinizzare la figura del Direttore d'orchestra!

Qualche giorno fa ho visto in tv una bella intervista di Myung-Whun Chung, nella quale a un certo momento dice una cosa che non può non colpire chi si interessi di direzione d'orchestra. Le sue parole erano più o meno : "quando ho smesso di fare il pianista e ho cominciato a dirigere, avevo la sensazione frustrante di non fare niente di utile dirigendo, di agitare le braccia ma di  essere lontano dalla musica. Per questo ogni tanto sento il bisogno di suonare VERAMENTE, tornando al mio strumento."
Queste per me sono parole di saggezza, parole di un vero musicista nell'anima.
La direzione è una funzione di servizio che è nata in un certo momento storico per necessità diciamo logistiche, cioè "mandare assieme" compagini strumentali che si facevano sempre più numerose, ed eseguire partiture sempre più complesse; il primo violino (o il vecchio concertatore al cembalo del Settecento) non era più sufficiente per questa funzione. Perciò si è trovata una soluzione tecnica: mettere in mezzo, davanti a tutti, un tizio che funge da metronomo. All'inizio era lo stesso compositore, ragionevolmente. Il quale peró  il più delle volte si arrangiava come poteva; e infatti abbiamo varie testimonianze e aneddoti dai quali si capisce che, non esistendo ancora una "tecnica" della direzione d'orchestra, le prove dovevano essere piuttosto rocambolesche e faticose, e le esecuzioni abbastanza pericolanti.
Poi col tempo intorno a questa figura di servizio è cresciuta tutta una sovrastruttura di contorno, che - non a caso a partire dal Romanticismo - idealizza l'Individuo, la persona di Genio, il depositario del Messaggio, della Verità e così via. Gli scritti di Wagner sulla direzione, non essendo ancora un vero "metodo", sono peró un segno evidente di questa nuova concezione idealizzata del Direttore ( da qui in poi con la D maiuscola).
Il passo successivo verso la mitizzazione definitiva avviene nel Novecento, (leggere in proposito  l'acuto saggio socio/fenomenologico di T.H.Adorno)  e in particolare con il grande musicista/businessman Herbert Von Karajan, il quale dedica attenzione esasperata agli aspetti visivi e sa avvalersi con grande spregiudicatezza delle tecnologie audio/video più avanzate per produrre e diffondere l' immagine di sè come Demiurgo/Stregone che evoca gli Spiriti.
Naturalmente il pubblico mondiale, storicamente e ideologicamente pronto a osannare Dittatori e Demiurghi nonostante le catastrofi da questi provocate solo pochi anni prima,  accoglie trionfalmente questa mutazione genetica del Direttore d'orchestra e ne decreta il successo a livello globale.
Da lì in poi il processo diventa incontrollabile e (speriamo di no) irreversibile. La mitizzazione del direttore arriva a livelli parossistici, e non stupirebbe che se ne facesse tra poco una figura mistico/religiosa, una specie di Santo, proprio quando il vero Papa della chiesa Cattolica invece sta intraprendendo il percorso inverso (almeno a livello dell'Immagine di sè) nel tentativo di apparire una persona "normale", che si mischia con le folle, che si lascia avvicinare come un qualsiasi prete di campagna.
Con tutto ció non intendo svalutare l'alto compito svolto dal direttore d'orchestra, nè mi sogno di disconoscere le grandiose interpretazioni forniteci dai grandi Maestri.
Ma dico che sarebbe necessario iniziare un processo di autentica de-stalinizzazione del Direttore: ricondurlo al suo compito specifico, che è quello di aiutare i veri musicisti, che sono gli strumentisti delle orchestre, a fare il loro lavoro nel modo migliore.
Tutto il resto è inutile e dannosa retorica, fumo senza arrosto che ammanta di un'aula di infallibilità una figura di servizio nata per ragioni di servizio in un certo momento storico, e forse, chissà, destinata ad esaurirsi nel futuro, quando l'orchestra sinfonica come la conosciamo oggi potrebbe non essere più al centro della vita musicale, ma essere ridotta a poche unità superstiti aventi mera funzione museale, di conservazione di un patrimonio.
Lo voglio ripetere con la massima chiarezza: ha ragione il Maestro Chung, chi  fa veramente la musica sono gli strumentisti, non il Direttore.
A quest'ultimo spetta il ruolo di coordinatore, ruolo certo altissimo e importante, ma non centrale, nonostante oggi sembri che nulla si possa fare senza uno in mezzo ad agitare le braccia, il più delle volte scompostamente.
Ci siamo troppo affezionati a questo Mito contemporaneo! E sarebbe ora di iniziare a ricondurlo al suo compito e alla sua dimensione reale. Sopratutto nell'interesse delle nuove generazioni di studenti di direzione, che subiscono loro malgrado l'influenza negativa di questa visione romantica e parossistica - oltre agli aspetti non meno attraenti e inquinanti di Successo, Potere, Denaro che tale Mito porta con sè - e se ne vedono troppo spesso i risultati purtroppo non esaltanti.
Per questo anche io nel mio piccolo seguo il consiglio del Maestro Chung, e quando posso con grande piacere imbraccio il mio violino e vado a sedermi in orchestra. Per fare musica "veramente"  :-))

martedì 29 marzo 2016

I ROLLING STONES A CUBA per la prima volta

Marzo 2016
 
Non posso non rimanere molto colpito dal fatto che il primo evento culturale che sancisce simbolicamente e trionfalmente la fine dell'isolamento politico di Cuba sia stato, ieri, proprio un concerto gratuito dei Rolling Stones.
La cosa assume una rilevanza unica sia come segno di ciò che si vuole che sia il futuro del costume, della cultura, dell'ideogia, della vita di quell'isola, sia per la stessa rock band inglese, l'unica impresa industrial/culturale multinazionale di quel tipo ancora in piena attività e finanziariamente performante da 50 anni.
Non sono capace di fare qui una analisi delle ragioni e delle conseguenze di questo evento che certamente è storico per Cuba ma anche per il mondo "sviluppato".
Sarebbe molto facile scadere in condanne moralistiche, e chiedersi ad esempio se non sarebbe stato più opportuno un grande concerto che so, di New York Philarmonic con direttore d'orchestra cubano e repertorio sudamericano, a sancire la nuova amicizia tra i vecchi nemici.
Ma certamente c'era bisogno di qualcosa che avesse copertura mediatica internazionale, e che potesse essere accolto dai cubani con entusiasmo. Ho sentito dire in verità che l'isolamento culturale dell'isola era tale che molti ignorassero quasi gli Stones, o conoscessero soltanto la loro canzone forse più famosa, "Satisfaction". Anche qui, non si può fare a meno di notare come questo stesso titolo diventi, 50 anni dopo esserlo stato in Occidente, lo slogan ideale per i cubani di oggi: prima "I COULD get no satisfaction", con il sistema politico castrista, ma adesso arrivano gli americani, i loro investimenti, la loro "libertà", e la satisfaction diventa a portata di mano per chi si rimbocca le maniche.
Quanto agli Stones, con questo concerto che vale come se avessero suonato all'indomani della caduta del muro di Berlino, assumono una statura storico/politica che forse prima era solo virtuale, e diventano così l'avanguardia simbolica di tutte le altre industrie multinazionali che seguiranno presto a Cuba le loro orme : del turismo, delle costruzioni, del commercio, della ristorazione e così via. Inutile far la lista: inizia da Mac Donald, Apple e così via. Ma queste non forniranno certamente gratis i loro servigi.
Io non sono mai stato a Cuba e quindi non so se in questo passaggio storico prevalgano gli aspetti negativi per il futuro dell'isola, per la sua integrità naturale, culturale, umana, oppure quelli certamente positivi di un sicuro aumento del tenore di vita della popolazione, con più posti di lavoro, salari migliori, case e servizi e così via.
Ma certo con oggi finisce il Mito (tutto occidentale forse) dell'ultimo luogo nel quale si tentava di resistere all'ideologia del pensiero unico capitalista, chiusi nel sogno di una "revolución" continua alla quale probabilmente non credeva più nessuno, ma che rimaneva nonostante tutto il simbolo di un orgoglio nazionale, di un fortissimo amor di patria.
Leggo che le agenzie turistiche degli Stati Uniti stanno promuovendo a tappeto in queste settimane le crocere a Cuba con lo slogan "andateci subito, prima che possiamo rovinarla". Se lo dicono loro.....

Gianandrea Gavazzeni, le avanguardie e noi


Qualche settimana fa ricordavo come alcuni musicisti/intellettuali non di primissimo piano, ma molto attivi nei decenni centrali del Novecento, come Gianandrea Gavazzeni, siano forse ingiustamente caduti nell’oblìo, e trascurato il valore del loro operato culturale e della loro riflessione estetica.
Oggi leggo un suo breve saggio del 1966 (nel libro “Non eseguire Beethoven, e altri scritti”) nel quale, occupandosi delle opere di Ildebrando Pizzetti, coglie l’occasione per esprimere perplessità circa la temperie culturale del Dopoguerra e l’egemonia del pensiero “d’avanguardia”. Ne estraggo alcuni passi:
“L’ultimo dopoguerra pone problemi inquieti, difficili e contradditori. Il processo é ancora in atto e non varrebbe ripercorrerne oggi l’istruttoria. La revoca in dubbio  cominciò allora, e investì i maggiori musicisti  compresi nella “generazione dell’80”. Perfino colui che pareva incombustibile, Stravinsky, venne drammaticamente implicato nella polemica adorniana.
I moduli sociologici vollero sostituirsi ai parametri estetici, portando avanti idee e metodi già cari al positivismo passato. Proprio l’estetica dei valori fu data per morta; involgendo ogni rapporto tradizionale dentro l’agonia della cultura borghese. Mentre ancor oggi, dopo vent’anni  da quelle saghe, non é stabilito con qualche garanzia sicura se codesta agonia sia davvero una realtà –estetica e sociale– o non piuttosto un luogo retorico  comodamente maneggevole.
Non sembra poi, dopo un ventennio, che la tentata cancellazione della “generazione dell’80” abbia dato  la stura a tali  capolavori e a tali  sorprese di  linguaggio, di poetiche, da giustificare l’avventatezza e rapidità del procedimento giudiziario (.....) Quanto alla “ nuova musica” o “neoavanguardia”, la partita é  troppo aperta... senza tralasciare l’ipotesi che musica, pseudomusica, come categoria utilitaria, o commestibile, sia del tutto inutile e nient’affatto necessaria all’uomo civilizzato contemporaneo.. Leggo in questi  giorni  la raccolta di un critico d’arte e poeta di colta finezza (....) Alessandro Parronchi- Pregiudizi e libertà dell’arte moderna; il suo rapporto sulla pittura recente, sui vizi e le volontarie distruzioni, offre esatto parallelismo  alla situazione musicale, con la coraggiosa difesa di un mondo falsamente dato  tutto  per morto, ancora attivo in una realtà della vita spirituale odierna e delle sue necessità. (....) La possibilità che il nostro singolo giudizio sia errato dà il continuo  movimento alla vita musicale del nostro spirito. Proprio  la revoca in dubbio  costituisce uno stimolo  operativo  incessante. Soltanto  l’odierno irrazionalismo non ha dubbi che certi  montaggi  rumoristici appartengano  all’assoluto del valore artistico o della liceità sociologica.”

mercoledì 20 maggio 2015

CO2 di Giorgio Battistelli al Teatro alla Scala



Giorgio Battistelli ha un acuto senso del Teatro e della drammaturgia.
I suoi  lavori sono sempre ispirati a soggetti di grande efficacia, perché ben conosciuti dal pubblico per le precedenti celebri versioni cinematografiche (Prova d'orchestra, Teorema, Miracolo a Milano, Divorzio all' italiana) o perché trattano, sia pur metaforicamente, temi importanti, quali il Potere, il Lavoro (Riccardo III, Experientum Mundi).
Per il Teatro alla Scala ha scritto un lavoro che richiama i temi dell' EXPO che in questi mesi si svolge nella città: non solo la nutrizione e i problemi della sua produzione ed equa distribuzione, ma sopratutto la sostenibilità a lungo termine della vita stessa del pianeta e dei suoi abitanti, umani e animali. 
Tema estremamente ambizioso, probabilmente il più alto che possa oggi trattare un artista, all'incrocio tra scienza e filosofia.
Come sintesi delle tematiche affrontate nell'opera, consiglio di leggere qui la scheda molto interessante scritta da Ian Burton per il sito del Teatro.