Riflessione  Oggi sembra essere politically correct superare la distinzione tassonomica tra i generi leggera/pesante, classica/contemporanea e così via, in nome della buona musica. Ma, si chiede lo studioso Edward Docx, «come si fa a distinguere la spazzatura da ciò che non lo è?»


di Renato Rivolta

È una ovvietà affermare che stiamo vivendo un periodo di grande mutamento: nel giro di pochi anni le tecnologie informatiche hanno completamente modificato le nostre vite, le modalità di comunicare e di lavorare, e nel campo più specifico della cultura e delle arti è in corso una profonda rimessa in discussione dei valori. Da tempo si è assistito all’insorgenza di un fenomeno che i sociologi hanno definito Post-modernismo, i cui primi segnali erano chiari già all’inizio degli anni ’60, ma che oggi è divenuto globale, anche se qualcuno già ne intravede il tramonto, come lo studioso Edward Docx in un suo importante articolo dal titolo  “Postmodernism is dead”.
L’autore vi sostiene che il Postmoderno «(…) ha cercato di eliminare ogni sorta di privilegio (…) e di sconfessare il consenso del gusto», di «(…) destabilizzare le pietre miliari moderniste dell’identità, del progresso storico e della certezza epistemica», e che «(…) di conseguenza, svanisce completamente il concetto di una visione unica del Mondo, di una visione predominante (…) tutte le interpretazioni convivono, e sono tutte su uno stesso piano». Per quello che riguarda le arti, Docx giunge alla conclusione che «Col passare del tempo (…) una mancanza di fiducia (…) ha permeato la cultura e pochi si sono sentiti sicuri o esperti a sufficienza da riuscire a distinguere la spazzatura da ciò che non lo è. Pertanto, in assenza di criteri estetici attendibili, è diventato sempre più conveniente stimare il valore delle opere in rapporto ai  guadagni che esse assicuravano».

Partiamo dunque da queste parole di Edward Docx per una riflessione inevitabilmente sommaria e personale: anch’io, come tutti, osservo la vicenda mentre si svolge, e solo in futuro si potrà avere una visione chiara dell’orizzonte nel quale ci troviamo in questo momento storico. Ma è legittimo almeno porsi la domanda: cosa sta cambiando nel nostro modo di fruire la musica? Come «riuscire a distinguere la spazzatura da ciò che non lo è»? Oggi, grazie alla tecnologia che riduce al minimo o annulla le distanze  temporali e spaziali, siamo immersi in una pluralità di linguaggi musicali, dai più semplici ai più complessi, tutti contemporaneamente ed ugualmente disponibili. È un fatto enormemente positivo che mette a disposizione di tutti, come mai prima nella storia, un patrimonio di molti secoli di musica, dall’antichità alle mille espressioni della contemporaneità. E non è solo questo: chiunque, con poca spesa, può acquistare le tecnologie con le quali farsi egli stesso compositore, e diffondere poi la sua musica in rete, senza passare dai canali istituzionali dell’educazione e della distribuzione musicale. Credo che oggi vi siano al mondo più compositori attivi (professionisti e non) che in tutta la storia precedente. Ma questo diluvio di musica – lo ripeto, molto positivo – porta forse con sé anche un certo appannamento nei criteri di giudizio, e una certa confusione nel discernimento tra linguaggi più specificamente centrati sulla “ricerca” e linguaggi più market oriented. La distinzione tra musicisti di professione e musicisti per passione si è fatta più labile: i secondi sono infinitamente più numerosi dei primi, ma non meno presenti in rete, a volte con esiti ben più interessanti dei primi. Mille ibridazioni (contaminazioni, dicono alcuni con brutto neologismo) di ogni genere nascono, spesso senza tener conto dell’origine e della struttura intrinseca dei linguaggi interessati, dando luogo nella maggioranza dei casi –  è la mia personale opinione – a clonazioni senza vere radici né senso profondo.
Chi fruisce della musica con maggiore consapevolezza o interesse avverte perciò la necessità di elaborare strumenti di giudizio più aderenti al nuovo contesto, e cerca come può di tracciare nuovi confini per orientarsi in un territorio musicale che sembra averli persi (ah, la mappa e il territorio!). La tassonomia ritorna quindi d’attualità, innanzitutto nella distinzione tra “generi” musicali. Come si distingue la musica “d’Arte” (o Colta, o Forte, secondo la lezione di Quirino Principe) dalle altre musiche? Ha ancora senso parlare di musica Classica riguardo a composizioni per orchestra o per ensemble (con archi, fiati etc.) scritte oggi? È sufficiente aggiungervi l’aggettivo Contemporanea? E dall’altro lato, ha senso definire Leggera, Commerciale, di Consumo tutta la musica non sinfonica o cameristica, mettendo così nella stessa cesta prodotti raffinati, frutto di ricerca pura, insieme a merci concepite industrialmente in serie per il  grande mercato del consumo di massa? Già Leonard Bernstein, nei suoi famosi Young People’s Concerts con la New York Philarmonic Orchestra, si era posto alcune di queste domande: e dopo aver preso atto che ogni definizione di musica “seria” o “d’arte” risultava imprecisa (inclusa quella di musica Esatta, per indicare quella scritta in ogni dettaglio in partitura dall’autore) si limitava prudentemente a circoscrivere tra la metà del XVIII e la metà del XIX secolo quella parte del repertorio che si può definire con pertinenza musicologica Classica. 
In questo quadro già complesso si inserisce poi la querelle intorno alle musiche di oggi, in tutte le diverse accezioni e correnti che conosciamo, tra reciproche accuse di snobismo intellettuale versus appiattimento sul gusto di massa e logiche commerciali. Così, mentre qualcuno considera ancora contemporanee delle composizioni scritte all’inizio del secolo scorso (la Seconda scuola di Vienna, per capirci!), basta visitare uno qualsiasi dei social networks o dei siti di interesse musicale per accorgersi che l’aria è veramente cambiata: le nuove generazioni, nate con lo smartphone e l’Ipod in mano e musicalmente onnivore, vedono ormai l’esperienza delle Avanguardie del XX secolo come un dato ampiamente storicizzato. Lontane anagraficamente da quella temperie culturale, lo giudicano senza alcun timore reverenziale, apprezzando le opere che sembrano poter resistere all’ingiuria del tempo ma anche condannando, a volte con grande asprezza, l’eccessivo intellettualismo di altre e la loro distanza dal dato propriamente musicale e dalle possibilità di apprezzamento da parte di un più vasto pubblico. Va detto che quello dell’Avanguardia era, pur con tutte le sue contraddizioni, senza dubbio un pensiero forte, nato da particolari condizioni storico/sociali: e non stupisce che oggi subisca il logoramento conseguente all’avvento del postmodernismo (che io considero in qualche modo un Pensiero debole). Ma è giusto che le cose evolvano, e ha torto chi di fronte a tale fenomeno si attarda nella acritica ripetizione di esperienze ormai al tramonto (..Signora mia, non ci sono più le avanguardie di una volta!). Ogni generazione tende a preservare i valori entro i quali si è formata, ed è comprensibilmente umano tracciare confini a difesa del proprio territorio conosciuto; ma è indispensabile anche avventurarsi in acque meno sicure per poter intravvedere i semi di possibili futuri capolavori.
La disputa si svolge, oggi come 60 anni fa, intorno a categorie risorgenti ciclicamente, quali “comunicazione”, “comprensibilità”, “Bellezza”: parola, quest’ultima, che le avanguardie della metà del ’900 si astenevano tutto sommato saggiamente dal pronunciare riguardo ai propri obiettivi estetici, facendo tesoro della lezione di Ludwig Wittgenstein secondo il quale “Su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere”; mentre oggi torna in auge e viene rivendicata da alcuni Laudatores temporis acti come se fosse un diritto socialmente garantito: il “diritto alla Bellezza”. Non che io abbia qualcosa contro la Bellezza, ovviamente, e non intendo assolutamente polemizzare: ma mi pare che sia un concetto troppo soggettivo, e che ispirarsi a queste vaghe categorie del Romanticismo per farne un manifesto un po’ revanscista “di opposizione” sia intellettualmente arrischiato: del resto, nessuno desidera ascoltare musica “brutta”, nemmeno chi si stordisce di decibel nei Rave parties.
Poi ci sono i problemi creati, consapevolmente o meno, dalla Politica che nell’inseguire il consenso dell’elettorato accresce la confusione: non possiamo dimenticare che nel nostro paese – capace di scelte assai “originali” nel campo delle politiche culturali! –  è stata proprio la Politica, nella persona del Ministro dei Beni Culturali del primo Governo Prodi, a conferire dignità istituzionale alla sé-dicente Musica Contemporanea Popolare, un universo di “generi” musicali – dai più schiettamente commerciali fino a quelli con propensione verso una allure classicheggiante o “colta” – che in precedenza erano genericamente catalogati come musica “leggera”, “canzone d’autore”, “pop” e così via. Ho avuto modo di toccare con mano l’incompetenza e la superficialità della visione della nostra politica in materia musicale quando ho sentito uno di loro affermare pubblicamente con sicumera che «Non esistono i generi  musicali, ma soltanto buona musica o cattiva musica. Claudio Abbado e Bruce Springsteen per me sono uguali». Con tutto il rispetto per Springsteen, una simile banalità lascia senza fiato, ammetterete.
Ed eccoci quindi al punto conclusivo, che mi pare decisivo. Rileggiamo la frase finale di Docx: «in assenza di criteri estetici attendibili, è diventato sempre più conveniente stimare il valore delle opere in rapporto ai guadagni che esse assicuravano». In altre parole, molte volte pare che il metro di giudizio di un’opera musicale dipenda oggi più dal consenso popolare che essa è capace di suscitare, in termini di fans affezionati, biglietti e dischi venduti, piuttosto che dal suo intrinseco valore compositivo. L’influenza delle logiche di marketing (mediatico ed economico) ha pervaso ormai capillarmente ogni settore della musica, modificandone in profondità le attitudini. Già prevedo la giusta obiezione: anche Puccini e Verdi scrivevano per riempire i teatri, non certo (non solo) per delle élites intellettuali, e ciò è certamente vero. Ma credo che possiamo trovarci tutti d’accordo almeno sull’eccelso magistero artistico di questi due grandi. Comunque, se mai è esistita, è oggi forse definitivamente avviata al tramonto la figura romantica dell’Artista che, chiuso nella sua bottega, crea l’Opera seguendo esclusivamente il proprio bisogno creativo, senza alcun condizionamento esterno. Rimangono ancora alcune enclaves che godono di protezione e sostegno statale, e garantiscono ad alcuni happy few tale “immunità dal mercato”, ma ho l’impressione che tra 10 o 20 anni saranno riassorbite, anche se non glielo auguro affatto, beninteso.
Ciò detto, non intendo concludere con rassegnazione che siamo destinati a un futuro musicale senza qualità, prono esclusivamente ai bisogni del Mercato. I nuovi grandi Maestri sono già qui tra noi, e stanno lavorando mentre scrivo queste righe, ognuno col proprio stile e i propri strumenti intellettuali, per preparare le opere e le interpretazioni che passeranno alla storia domani. Diamo loro fiducia, ricordandoci sempre che quando «grande è la confusione sotto il cielo, la situazione è eccellente».

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