"Sto diventando un po' troppo critico per potermi illudere ulteriormente di avere qualche talento" - F. Nietzsche


"Musica est exercitium aritmaeticae occultum nescientis se numerari animi“

- G.W. Leibniz


"I pecoroni non vogliono diventare padroni del loro lavoro!" - C.T.


"Tutta la musica è contemporanea."

martedì 27 dicembre 2016

Ha ragione chi teorizza la scomparsa dell'arte?

 
È curioso osservare come nel campo delle arti visuali il dibattito su "cosa sia Arte", ovvero quale caratteristica qualifichi come "artistico" un manufatto o una performance o anche solo un concetto che permetta di qualificarlo come "Opera", sia ancora acceso e vivace, e si pubblichino tuttora libri sull'argomento, come quelli raffigurati nella foto; mentre invece nel campo della musica, fatta salva la controversia che ciclicamente riemerge intorno alla figura centrale di John Cage, pare che si dia per scontato che è musica (intesa come manifestazione artistica) qualsiasi produzione sonora, più o meno organizzata o improvvisata, artificiale o naturale, a patto che esista una comunità - o perfino soltanto un singolo individuo- disposta a considerarla tale.
Da un lato quindi sembrerebbe che nel campo musicale si sia "più avanti" rispetto alle arti visuali/visive, avendo ormai archiviato il problema e assimilato questa sorta di universalismo ecumenico tipico della fine del XX secolo e del postmoderno globalizzato, che mette tutto sullo stesso piano; dall'altro lato però a me pare che questa apertura totale sia gravemente lacunosa perchè si basa su una tautologia circolare - che vale anche per le arti visive/visuali - secondo la quale il criterio discriminante non risiede nelle qualità intrinseche dell'opera, nella sua fattura concreta, ma nella "intenzionalità" del soggetto creatore o dei fruitori, i quali vi riconoscono una artisticità, e ciò basta a sancirne la qualifica sociale di "Opera d'arte".
Non sarò certo io a volermi trasformare in un novello Hanslick e dettare il canone estetico del XXI secolo. Nessuno ha il diritto di contestare l'altrui giudizio - sia esso fondato su strumenti critici adeguati oppure su sensazioni superficiali.
Ma sono disorientato e mi domando come mai il dibattito pubblico sull'estetica musicale contemporanea sia così povero di stimoli, o così a me pare, e prenda per buono lo stato delle cose senza apparentemente più porsi delle domande di fondo.
Forse ha ragione chi teorizza la ormai totale dissoluzione dell'arte - intesa come concetto che ci arriva dal Romanticismo, e che identificava quelle espressioni appartenenti alla sfera della pura estetica- per completa assimilazione/identificazione col Mercato e le sue leggi, che ha convertito qualsiasi esperienza estetica in Merce ?

mercoledì 21 dicembre 2016

"NEL SECOLO SCORSO SCRIVEVO MUSICA CON LE NOTE" (oggi con i suoni)

"NEL SECOLO SCORSO SCRIVEVO MUSICA CON LE NOTE"
(sottinteso: oggi con i suoni).
Una riflessione sulla "Musica Concreta Strumentale" europea.

Questa frase, pronunciata scherzosamente da un amico compositore, vale una rivoluzione copernicana, e sintetizza perfettamente lo stato attuale della musica "d'avanguardia " europea. È un cambio totale di prospettiva, che apre orizzonti infiniti e imprevedibili.
In verità questa "rivoluzione" ha le sue radici saldamente affondate nel primo Novecento (ma forse anche ben prima: penso ad esempio alle incudini del Rheingold), quando iniziò l'erosione delle barriere tra "suono" e "rumore": molti furono gli autori che contribuirono in modi più o meno radicali a questo lento processo, ma se dovessi indicare il primo, il più coraggioso, direi forse Varèse, con l'irruzione nel circolo chiuso della musica di suoni presi dalla realtà esterna, quali sirene, metalli, suoni industriali e cosi via.
Un altra invenzione del Novecento che alimentò questo processo fu lo sviluppo della tecnologia audio, che diede luogo alla nascita della Musica Elettronica. Per la prima volta i compositori ebbero accesso al mondo infinito dei suoni al di fuori del piccolo recinto delle note. Suoni infiniti e inauditi, che non esistono in natura e che possono essere creati ex novo,  plasmati e organizzati a piacere.
Poi nacque, nella seconda metà del Novecento, la Terza Via, la cosiddetta "Musica Concreta Strumentale", che esplora le possibilità sonore alternative degli strumenti tradizionali; non in cerca di "effetti" stranianti e/o evocativi come potrebbero essere i corni "chiusi" di Mahler o i tremoli al ponticello degli espressionisti,  ma per le loro qualità puramente foniche: suoni complessi, instabili, ai confini col rumore bianco, oppure aggregati inarmonici variamente "colorati" o "sporchi".

giovedì 8 dicembre 2016

CORSI E RICORSI STORICI


Grazie a un recente post di un amico, ho fortunosamente recuperato dai più dimenticati recessi della mia disordinata biblioteca questo libro, relitto di un epoca tramontata e rimossa, pubblicato nel 1971 da un Perniola trentenne ma già pienamente integrato nel mondo degli studiosi di alto livello, e infatti pubblicato nella collana di estetica curata da due "mammasantissima" dell'epoca, Luciano Anceschi e Luigi Pareyson.
Leggendo il risvolto di copertina, trasecolo:
"L'arte non è una manifestazione piena e totale della creatività umana, ma una sua alienazione....l'arte, intesa come significato senza realtà, e l'economia, intesa come realtà senza significato, costituiscono la struttura del mondo borghese: in esso alla spiritualità impotente della prima corrisponde la materialità violenta della seconda. Entrambe cercano di chiudere l'uomo in un contesto totalitario fondato sulla separazione."
Parole che evocano il sapore inconfondibile di un tempo nel quale, sotto il vessillo allora egemonico della visione marxista del mondo, molti provarono a elaborare una critica radicale dello stato delle cose, con il sogno di rovesciare un intero modello sociale e culturale e rifare tutto da capo, in un modo più giusto e più umano.

martedì 27 settembre 2016

DIONISO AL CONCERTO DI MUSICA ELETTRONICA (Cronaca semiseria)


"Remix concettuale": questa la definizione di ciò che ci aspetta, a quanto dice uno degli addetti ai lavori.

I PARTE
Sul palcoscenico non c'è alcuna presenza umana: solo dei totem primitivi, dei menhir tecnologici.
Presenze impersonali, inquietanti.
Sono creature di un altro mondo.
Le loro bocche sdentate sghignazzanti su colli troppo lunghi, i loro occhi senza orbite sono rivolti verso di noi, impersonali, ieratici. Ma sappiamo che è da quelle bocche e da quegli occhi che uscirà lo tsunami inaudito di suono, l'onda che ci sommergerà.
E sarà subito Trance oceanica ansiogena. Siamo venuti qui per questo.
Tutti noi seduti al buio, siamo sommersi da suoni sibili schianti battiti di ali uragani e maree provenienti da ogni parte intorno a noi a volume devastante.
Mi dico: mette un po' a disagio in verità vedere questo pubblico che assiste a una sorta di Rito di devozione collettiva al Dio onnipotente della Macchina. C'è una fortissima componente Dionisiaca senza dubbio, ma la violenza primigenia è qui sterilizzata: si assiste, ordinatamente seduti in silenzio ognuno al proprio posto e al buio, a questa sublimazione collettiva della violenza.
L'Uomo della Macchina è il sacerdote che officia il Rito dall'altare allestito in mezzo a noi, in platea, da dietro la sua consolle luminosa come il quadro comandi di uno shuttle ( il paragone è scontato, ma pertinente: il Cosmo, lo Spazio è l'immagine che viene più facile alla mente quando si ascolta musica elettronica: forse a causa del riverbero lunghissimo, dei profondissimi orizzonti siderali che il suo utilizzo ispira).
L'Uomo della Macchina dunque è colui che solo è autorizzato a evocare la potenza del Dio, a provocarne l'Epifania immateriale, sub substantia sonoris.
Viene il sospetto che questo desiderio di trance pseudo-mistica non a caso interessi così tanto il pubblico, in maggioranza di giovani, che c'è qui: come se fosse un modo per partecipare virtualmente a un sacrificio pagano e violento, ma metaforizzato in forma sonora e perció priva del pericolo di far scoppiare un'orgia o una violenza di massa, come invece sarebbe piu logico aspettarsi da questi giovani precari, che hanno ancora tutta la vita da vivere ma con davanti un futuro incerto e oscuro.
Dovrebbero scendere in piazza e spaccare tutto, fare la rivoluzione, penso dentro di me.
Invece se ne stanno lì buoni buoni seduti nel loro posto numerato, e hanno applaudito con cortesia e moderazione la lunga presentazione pre-concerto. Hanno applaudito disciplinatamente le Autorità civili e religiose e ora stanno zitti e buoni al buio, invece di uscir fuori e spaccare tutto.
Ma forse quello cui partecipiamo qui è ancora e sempre quello stesso rito apotropaico che in ogni tempo gli uomini celebrano, evocando la violenza in forma simbolica per scongiurarne l'esplosione concreta e reale.
Da questo punto di vista, la qualità intrinseca della musica sembra a me essere davvero poco importante. E forse anche per questi ventenni. Non siamo qui per la musica, ma per qualche altra ragione oscura che non riesco ad afferrare.

giovedì 4 agosto 2016

CONNECT ?



CONNECT
Leggo sulla preziosa rivista cartacea edita da Ensemble Modern, Frankfurt, il lancio di un progetto di cooperazione internazionale tra lo stesso EM, London Sinfonietta, Asko, Remix, chiamato CONNNECT che sarà eseguito nei quattro paesi dove risiedono i predetti ensembles, e consiste nel commissionare ad alcuni (giovani) compositori dei lavori che includano un intervento attivo del pubblico nell'esecuzione.
Va da sè che questa partecipazione, per ovvi motivi, non puó essere molto raffinata. Dalle interviste ai compositori ricavo che il pubblico potrà suonare varie piccole percussioni distribuite all'ingresso del concerto, oppure mormorare, recitare in vario modo brani di poesie tratte dal programma di sala, o produrre suoni - vocali o di altro genere: sempre seguendo una serie di istruzioni precedentemente impartite, e integrando così, come previsto in partitura, la parte musicale eseguita dagli interpreti professionisti. Potrà eventualmente anche spostarsi insieme agli esecutori, nel caso che l'opera preveda da parte dei musicisti professionisti una esecuzione "itinerante" o spazializzata. E così via. 
Per riflettere su questo progetto è necessario tenere a mente il contesto più ampio: la musica contemporanea "accademica", quella che discende in qualche modo dalla "Neue Musik" del '900, perde appeal in tutta Europa, fatica a finanziarsi e rischia di ghettizzarsi sempre di più, con un suo pubblico fedele certo, che peró invecchia, con i suoi riti più o meno consolidati. Non era questo il progetto originale della Neue Musik, la quale, al contrario, nei pensiero utopistico dei suoi esponenti più d'avanguardia, credeva di sostituirsi del tutto, nel mondo del futuro, alla musica "classica"! 
Il pionierismo dell'avanguardia è ormai consegnato alla Storia. Le formazioni specializzate in questo repertorio, oggi pienamente istituzionalizzate da parecchi decenni, finanziate in larga parte da denaro pubblico, sanno che in futuro queste risorse diminuiranno seguendo inevitabilmente il trend politico/culturale del nostro tempo. Quindi cercano giustamente di rimodulare la loro offerta e di rinnovare allo stesso tempo il pubblico e la proposta culturale in modo più adeguato alla nuova situazione sociale, alle tendenze attuali. 
E indubitabilmente il concetto di CONNESSIONE, di PARTECIPAZIONE, in vari modi coniugato, nel mondo reale come in quello virtuale dei media e dei social media, è il trend principale del nostro tempo. 
Ecco quindi che l'idea di coinvolgere il pubblico direttamente nell'esecuzione, annullando in qualche modo la distanza tra i musicisti sul palco e la gente seduta in platea, sembra essere una risposta, sia pur parziale, per rimettere in moto le cose e risvegliare l'interesse della gente e dei media.
Benissimo: del resto l'idea non è affatto originale, se si pensa alle performances di John Cage e altri in campo musicale (roba degli anni 50/60 del Novecento!) e del nostro Ronconi nel teatro: penso al suo Orlando Furioso degli anni '70, allestito in vari spazi di una ex fabbrica, con scene recitate in contemporanea in varie sale che il pubblico poteva visitare nell'ordine preferito.
Questi due precedenti storici bastino per esemplificare una grande quantità di proposte simili che si sono viste nella seconda metà del Novecento.
 
È poi recentissimo il "Concerto per orchestra e pubblico" di Nicola Campogrande, (vedi foto-articolo di Repubblica)  che ha avuto delle esecuzioni pare molto gradite dal pubblico partecipante, e ha attirato l'attenzione dei media non specializzati. Io non l' ho ascoltato e non posso giudicare.
Comunque, è ovvio che non si inventa mai nulla ex-novo, e che sembra saggio riprendere una tendenza del passato, se si è in grado di svilupparla meglio, di adeguarla al presente. 
Dipenderà quindi dalla qualità artistica- non solo dal suo potenziale di socializzazione - di questo progetto CONNECT se avrà fortuna.
Sinceramente, ciò che desumo dal lungo articolo sulla rivista di EM nelle dichiarazioni d'intento dei suoi serissimi promotori, non sembra andare molto più in là di un retorico, politicamente corretto appello alla "partecipazione attiva" del pubblico nella realizzazione di particolari "atmosfere" musicali, magari anche affascinanti singolarmente dal punto di vista sonoro, ma credo tutto sommato dal fiato corto, e mi domando: è veramente così che pensiamo il futuro della nostra musica? Siamo di fronte a un espediente massmediatico oppure a una proposta articolata, pensata a fondo, di lungo respiro? La nostra é l'Era della Connessione, della Condivisione: ma anche qualche volta della demagogia. Non vorrei che alla fine ci ritrovassimo in una no man's land, a metà strada tra i vecchi happenings degli anni '60 e il pubblico festante che applaude a tempo la Radetsky March ogni 1 gennaio a Vienna :-))

domenica 5 giugno 2016

LA STORIA NEGATA - Musica e musicisti nell'era fascista


"L'epurazione di un parte del nostro patrimonio nazionale è stata, in musica, più efferata che nelle altre arti. (...) è stato facile, per i partiti trionfanti dopo la Guerra Civile in Italia, eradere semplicemente ció che avrebbe meritato una complessa discussione. (...) la revisione postbellica ha causato una soluzione di continuità capace di mettere in crisi la stessa identità nazionale della musica del Novecento italiano. Se l'Italia è ancora "il paese del Melodramma", per dirla con Bruno Barilli, la colpa è sopratutto degli operatori culturali (....) che hanno agito in modo distruttivo. "

Questa la tesi di fondo del bel libro di Alessandro Zignani (Zecchini Editore) che, da un punto di vista genericamente definibile "conservatore", restituisce un panorama complessivo, se non esauriente, e illuminante sulla situazione dei musicisti italiani nella prima parte del Novecento e in particolare durante il Ventennio. Denso di informazioni, e ricco di ironia e sarcasmo che permette di guardare anche con un certo distacco alle baruffe e alle lotte per il potere tra compositori che si contendevano i favori del Duce, è un libro che consiglio perché mi pare un contributo indispensabile per iniziare in modo sistematico a colmare una lacuna storica e musicologica sulla quale per anni abbiamo rifiutato di volgere l'attenzione.
Casella, Respighi, Giordano, Pizzetti, Malipiero, Lualdi, Sinigaglia, Ghedini, Bossi, Pick-Mangiagalli, Porrino, Salviucci, Pilati, Gnecchi, Mulè, De Sabata, Marinuzzi e molti altri sono stati i protagonisti della musica italiana nella prima parte del secolo: più cosmopoliti e meno provinciali di quanto ci siamo abituati a ritenere, meritano ben maggiore attenzione di quella finora loro riservata.
Non per rinverdire un becero neo-nazionalismo musicale, ma perché è più saggio conoscere i nostri padri, e comprendere da dove siamo venuti, invece che tentare di seppellirli per sempre, come vergognandosene, dopo averli condannati con un processo sommario.
I tempi sono maturi per un ripensamento, sia perché sempre nella storia ci sono i "corsi e ricorsi", ma ancor più perché la "spinta propulsiva" delle ex-avanguardie mi pare definitivamente esaurita, ed è ormai oggi nelle cose una "revisione della revisione".
Le generazioni nate nei decenni immediatamente successivi alla II guerra mondiale sono cresciute in un clima culturale di "progressismo ideologico" che ha avuto tanti meriti, ha favorito l'emergere di tante nuove proposte artistiche, ma doveva sgombrare dallla visuale coloro che considerava relitti polverosi ed equivoci di un passato del quale vergognarsi. Oggi il clima è cambiato e possiamo tornare a guardare con più serenità a quelli che, volenti o nolenti, sono stati i nostri progenitori.
Un altro merito del libro è demistificare la divisione fascisti/antifascisti tra i musicisti del Ventennio: almeno fino al 1938, anno dell'introduzione delle leggi razziali, furono tutti più o meno legati al Fascismo, chi per convinzione, chi per carrierismo, chi per poter continuare a far musica, chi per ingenuità. Il Regime tollerava, premiava, distribuiva cariche, prebende, posti d'insegnamento, commissioni per opere nuove. Più o meno tutti se ne avvalsero: molti anche ben oltre il 1938, ricoprendo cariche di prestigio e riconoscimenti pubblici. E non faccio nomi. Alcuni superarono indenni la fine del Regime e conservarono le loro posizioni nel Dopoguerra, fino all'altroieri.... 

mercoledì 25 maggio 2016

De-stalinizzare la figura del Direttore d'orchestra!

Qualche giorno fa ho visto in tv una bella intervista di Myung-Whun Chung, nella quale a un certo momento dice una cosa che non può non colpire chi si interessi di direzione d'orchestra. Le sue parole erano più o meno : "quando ho smesso di fare il pianista e ho cominciato a dirigere, avevo la sensazione frustrante di non fare niente di utile dirigendo, di agitare le braccia ma di  essere lontano dalla musica. Per questo ogni tanto sento il bisogno di suonare VERAMENTE, tornando al mio strumento."
Queste per me sono parole di saggezza, parole di un vero musicista nell'anima.
La direzione è una funzione di servizio che è nata in un certo momento storico per necessità diciamo logistiche, cioè "mandare assieme" compagini strumentali che si facevano sempre più numerose, ed eseguire partiture sempre più complesse; il primo violino (o il vecchio concertatore al cembalo del Settecento) non era più sufficiente per questa funzione. Perciò si è trovata una soluzione tecnica: mettere in mezzo, davanti a tutti, un tizio che funge da metronomo. All'inizio era lo stesso compositore, ragionevolmente. Il quale peró  il più delle volte si arrangiava come poteva; e infatti abbiamo varie testimonianze e aneddoti dai quali si capisce che, non esistendo ancora una "tecnica" della direzione d'orchestra, le prove dovevano essere piuttosto rocambolesche e faticose, e le esecuzioni abbastanza pericolanti.
Poi col tempo intorno a questa figura di servizio è cresciuta tutta una sovrastruttura di contorno, che - non a caso a partire dal Romanticismo - idealizza l'Individuo, la persona di Genio, il depositario del Messaggio, della Verità e così via. Gli scritti di Wagner sulla direzione, non essendo ancora un vero "metodo", sono peró un segno evidente di questa nuova concezione idealizzata del Direttore ( da qui in poi con la D maiuscola).
Il passo successivo verso la mitizzazione definitiva avviene nel Novecento, (leggere in proposito  l'acuto saggio socio/fenomenologico di T.H.Adorno)  e in particolare con il grande musicista/businessman Herbert Von Karajan, il quale dedica attenzione esasperata agli aspetti visivi e sa avvalersi con grande spregiudicatezza delle tecnologie audio/video più avanzate per produrre e diffondere l' immagine di sè come Demiurgo/Stregone che evoca gli Spiriti.
Naturalmente il pubblico mondiale, storicamente e ideologicamente pronto a osannare Dittatori e Demiurghi nonostante le catastrofi da questi provocate solo pochi anni prima,  accoglie trionfalmente questa mutazione genetica del Direttore d'orchestra e ne decreta il successo a livello globale.
Da lì in poi il processo diventa incontrollabile e (speriamo di no) irreversibile. La mitizzazione del direttore arriva a livelli parossistici, e non stupirebbe che se ne facesse tra poco una figura mistico/religiosa, una specie di Santo, proprio quando il vero Papa della chiesa Cattolica invece sta intraprendendo il percorso inverso (almeno a livello dell'Immagine di sè) nel tentativo di apparire una persona "normale", che si mischia con le folle, che si lascia avvicinare come un qualsiasi prete di campagna.
Con tutto ció non intendo svalutare l'alto compito svolto dal direttore d'orchestra, nè mi sogno di disconoscere le grandiose interpretazioni forniteci dai grandi Maestri.
Ma dico che sarebbe necessario iniziare un processo di autentica de-stalinizzazione del Direttore: ricondurlo al suo compito specifico, che è quello di aiutare i veri musicisti, che sono gli strumentisti delle orchestre, a fare il loro lavoro nel modo migliore.
Tutto il resto è inutile e dannosa retorica, fumo senza arrosto che ammanta di un'aula di infallibilità una figura di servizio nata per ragioni di servizio in un certo momento storico, e forse, chissà, destinata ad esaurirsi nel futuro, quando l'orchestra sinfonica come la conosciamo oggi potrebbe non essere più al centro della vita musicale, ma essere ridotta a poche unità superstiti aventi mera funzione museale, di conservazione di un patrimonio.
Lo voglio ripetere con la massima chiarezza: ha ragione il Maestro Chung, chi  fa veramente la musica sono gli strumentisti, non il Direttore.
A quest'ultimo spetta il ruolo di coordinatore, ruolo certo altissimo e importante, ma non centrale, nonostante oggi sembri che nulla si possa fare senza uno in mezzo ad agitare le braccia, il più delle volte scompostamente.
Ci siamo troppo affezionati a questo Mito contemporaneo! E sarebbe ora di iniziare a ricondurlo al suo compito e alla sua dimensione reale. Sopratutto nell'interesse delle nuove generazioni di studenti di direzione, che subiscono loro malgrado l'influenza negativa di questa visione romantica e parossistica - oltre agli aspetti non meno attraenti e inquinanti di Successo, Potere, Denaro che tale Mito porta con sè - e se ne vedono troppo spesso i risultati purtroppo non esaltanti.
Per questo anche io nel mio piccolo seguo il consiglio del Maestro Chung, e quando posso con grande piacere imbraccio il mio violino e vado a sedermi in orchestra. Per fare musica "veramente"  :-))

martedì 29 marzo 2016

I ROLLING STONES A CUBA per la prima volta

Marzo 2016
 
Non posso non rimanere molto colpito dal fatto che il primo evento culturale che sancisce simbolicamente e trionfalmente la fine dell'isolamento politico di Cuba sia stato, ieri, proprio un concerto gratuito dei Rolling Stones.
La cosa assume una rilevanza unica sia come segno di ciò che si vuole che sia il futuro del costume, della cultura, dell'ideogia, della vita di quell'isola, sia per la stessa rock band inglese, l'unica impresa industrial/culturale multinazionale di quel tipo ancora in piena attività e finanziariamente performante da 50 anni.
Non sono capace di fare qui una analisi delle ragioni e delle conseguenze di questo evento che certamente è storico per Cuba ma anche per il mondo "sviluppato".
Sarebbe molto facile scadere in condanne moralistiche, e chiedersi ad esempio se non sarebbe stato più opportuno un grande concerto che so, di New York Philarmonic con direttore d'orchestra cubano e repertorio sudamericano, a sancire la nuova amicizia tra i vecchi nemici.
Ma certamente c'era bisogno di qualcosa che avesse copertura mediatica internazionale, e che potesse essere accolto dai cubani con entusiasmo. Ho sentito dire in verità che l'isolamento culturale dell'isola era tale che molti ignorassero quasi gli Stones, o conoscessero soltanto la loro canzone forse più famosa, "Satisfaction". Anche qui, non si può fare a meno di notare come questo stesso titolo diventi, 50 anni dopo esserlo stato in Occidente, lo slogan ideale per i cubani di oggi: prima "I COULD get no satisfaction", con il sistema politico castrista, ma adesso arrivano gli americani, i loro investimenti, la loro "libertà", e la satisfaction diventa a portata di mano per chi si rimbocca le maniche.
Quanto agli Stones, con questo concerto che vale come se avessero suonato all'indomani della caduta del muro di Berlino, assumono una statura storico/politica che forse prima era solo virtuale, e diventano così l'avanguardia simbolica di tutte le altre industrie multinazionali che seguiranno presto a Cuba le loro orme : del turismo, delle costruzioni, del commercio, della ristorazione e così via. Inutile far la lista: inizia da Mac Donald, Apple e così via. Ma queste non forniranno certamente gratis i loro servigi.
Io non sono mai stato a Cuba e quindi non so se in questo passaggio storico prevalgano gli aspetti negativi per il futuro dell'isola, per la sua integrità naturale, culturale, umana, oppure quelli certamente positivi di un sicuro aumento del tenore di vita della popolazione, con più posti di lavoro, salari migliori, case e servizi e così via.
Ma certo con oggi finisce il Mito (tutto occidentale forse) dell'ultimo luogo nel quale si tentava di resistere all'ideologia del pensiero unico capitalista, chiusi nel sogno di una "revolución" continua alla quale probabilmente non credeva più nessuno, ma che rimaneva nonostante tutto il simbolo di un orgoglio nazionale, di un fortissimo amor di patria.
Leggo che le agenzie turistiche degli Stati Uniti stanno promuovendo a tappeto in queste settimane le crocere a Cuba con lo slogan "andateci subito, prima che possiamo rovinarla". Se lo dicono loro.....

Gianandrea Gavazzeni, le avanguardie e noi


Qualche settimana fa ricordavo come alcuni musicisti/intellettuali non di primissimo piano, ma molto attivi nei decenni centrali del Novecento, come Gianandrea Gavazzeni, siano forse ingiustamente caduti nell’oblìo, e trascurato il valore del loro operato culturale e della loro riflessione estetica.
Oggi leggo un suo breve saggio del 1966 (nel libro “Non eseguire Beethoven, e altri scritti”) nel quale, occupandosi delle opere di Ildebrando Pizzetti, coglie l’occasione per esprimere perplessità circa la temperie culturale del Dopoguerra e l’egemonia del pensiero “d’avanguardia”. Ne estraggo alcuni passi:
“L’ultimo dopoguerra pone problemi inquieti, difficili e contradditori. Il processo é ancora in atto e non varrebbe ripercorrerne oggi l’istruttoria. La revoca in dubbio  cominciò allora, e investì i maggiori musicisti  compresi nella “generazione dell’80”. Perfino colui che pareva incombustibile, Stravinsky, venne drammaticamente implicato nella polemica adorniana.
I moduli sociologici vollero sostituirsi ai parametri estetici, portando avanti idee e metodi già cari al positivismo passato. Proprio l’estetica dei valori fu data per morta; involgendo ogni rapporto tradizionale dentro l’agonia della cultura borghese. Mentre ancor oggi, dopo vent’anni  da quelle saghe, non é stabilito con qualche garanzia sicura se codesta agonia sia davvero una realtà –estetica e sociale– o non piuttosto un luogo retorico  comodamente maneggevole.
Non sembra poi, dopo un ventennio, che la tentata cancellazione della “generazione dell’80” abbia dato  la stura a tali  capolavori e a tali  sorprese di  linguaggio, di poetiche, da giustificare l’avventatezza e rapidità del procedimento giudiziario (.....) Quanto alla “ nuova musica” o “neoavanguardia”, la partita é  troppo aperta... senza tralasciare l’ipotesi che musica, pseudomusica, come categoria utilitaria, o commestibile, sia del tutto inutile e nient’affatto necessaria all’uomo civilizzato contemporaneo.. Leggo in questi  giorni  la raccolta di un critico d’arte e poeta di colta finezza (....) Alessandro Parronchi- Pregiudizi e libertà dell’arte moderna; il suo rapporto sulla pittura recente, sui vizi e le volontarie distruzioni, offre esatto parallelismo  alla situazione musicale, con la coraggiosa difesa di un mondo falsamente dato  tutto  per morto, ancora attivo in una realtà della vita spirituale odierna e delle sue necessità. (....) La possibilità che il nostro singolo giudizio sia errato dà il continuo  movimento alla vita musicale del nostro spirito. Proprio  la revoca in dubbio  costituisce uno stimolo  operativo  incessante. Soltanto  l’odierno irrazionalismo non ha dubbi che certi  montaggi  rumoristici appartengano  all’assoluto del valore artistico o della liceità sociologica.”